Lo scontro sulla nave Ocean Viking offre, sui rapporti fra Italia e asse franco-tedesco, uno scorcio singolarmente rivelatore.
Per la Francia hanno parlato il ministro degli interni Gerald Dermanin (in un breve discorso e poi rispondendo ad alcune domande), il ministro degli esteri Colonna, il segretario di Stato per gli affari europei Laurence Boone, il portavoce del governo Olivier Véran. Per l’Italia hanno risposto il primo ministro Meloni, il ministro degli interni Piantedosi ed il ministro degli esteri Tajani.
Gli argomenti di Parigi
Gli argomenti di Parigi sono tre. Il primo è il diritto internazionale: “il porto in cui doveva andare la nave, il porto più vicino, quando le persone sono in pericolo, è un porto italiano”. Argomento consuetudinario, cui si risponde al solito: SAR libica, Malta, Tunisi. Il fatto nuovo è che Parigi stessa lo considera deboluccio, visto che trova necessario rinforzarlo con i due seguenti.
Il secondo, è che sulla barca c’erano persone in pericolo: “abbiamo dovuto usare gli elicotteri, per prelevare persone la cui salute era davvero peggiorata”. Qui la Boone esagera un poco (“possiamo chiederci se esiste una strumentalizzazione di queste vite umane”), viene incalzata (“sospetta l’Italia di strumentalizzazione, in questa vicenda?”) e subito si ritrae (“ho detto che possiamo porci la domanda”).
E non stupisce, visto che l’argomento è deboluccio, tenuto conto del gran tempo (una quindicina di giorni) che la nave ha atteso prima di decidersi finalmente a fare la breve rotta per la Francia (un giorno per la Corsica, due per la Provenza): potevano spicciarsi.
Il terzo è una “Dichiarazione che prevede un meccanismo di solidarietà a beneficio degli Stati membri di primo approdo”, firmata lo scorso 22 giugno 2022 da 18 Stati membri Ue (compreso il governo Draghi) e 3 Stati associati (inclusa la Norvegia).
Il meccanismo di solidarietà
Secondo Darmanin, con tale Dichiarazione Roma avrebbe riaffermato il proprio impegno ad interpretare il diritto internazionale come lo interpreta Parigi. Il che avrebbe implicato, per Roma, l’obbligo di “accogliere quelle persone su questa barca”.
Né Roma sarebbe libera di interpretare il diritto internazionale in modo diverso, se non col previo consenso degli altri firmatari la Dichiarazione. Perciò, Darmanin accusa l’Italia di aver assunto una “decisione unilaterale”, di “abuso di fiducia” (rupture de confiance) e di non essere “uno Stato europeo responsabile”.
Tale accusa gli pare più grave ancora, di quella di aver violato il diritto internazionale: “una decisione unilaterale, che mette in pericolo vite e che, peraltro, non è conforme al diritto internazionale”. Il che suona ovvio a chiunque non ignori che il diritto internazionale come lo interpreta Parigi non è affatto univocamente accettato, né fra gli Stati, né in dottrina.
In altre parole, Darmanin sa di non poter aver partita vinta, né invocando il diritto internazionale, né la salute dei migranti. Ma solo imponendo regole tutte sue, che aggiungano condizioni specialmente gravose, assai più gravose di quelle accettate da tutti gli Stati del mondo fuori da Leuropa.
Secondo uno schema ormai classico, introdotto col Regolamento di Dublino. Il quale introduce il criterio dello Stato di primo ingresso (NB: ingresso e non approdo), assente nella Convenzione sui rifugiati, i quali sarebbero in teoria liberi di muoversi dall’Italia in ogni Paese della Ue … se non fosse per il Regolamento di Dublino.
Un atteggiamento coloniale
Tutto ciò, per Parigi non è trattabile. Ciò che è stato ripetuto, come un ritornello, al governo italiano, per tutti i giorni precedenti alla esplosione della crisi. Così Darmanin: “abbiamo intensificato i nostri contatti negli ultimi giorni e notti … al fine di richiamare … l’attenzione del governo italiano su questo dossier e incoraggiarlo a rispettare il diritto internazionale e i suoi obblighi nei confronti di questa situazione”.
E così la Boone: “abbiamo dialogato per diversi giorni, abbiamo richiamato le regole del diritto internazionale, abbiamo ricordato che esisteva un meccanismo di ricollocamento” (cioè i supposti impegni della Dichiarazione).
E lo stesso per l’avvenire. Così la Colonna, giovedì: sul rapporto franco-italiano “ci saranno conseguenze se l’Italia persiste in questo atteggiamento” (cioè, non è Parigi a dover cambiare). Così Véran, domenica: “Non chiedetemi di considerare che la partita sarebbe persa. Non chiedetemi di considerare che l’Italia ormai si consideri un Paese fuori dalle regole europee sull’immigrazione. Vogliamo darci i mezzi per lavorare, in Europa, affinché l’Italia ritrovi la ragione (retrouve la raison) in questa materia”.
In altri termini, Parigi non ha mai offerto e non offre a Roma alcuna via d’uscita, diversa dalla resa incondizionata: o fate come diciamo noi, oppure fate come diciamo noi. Un atteggiamento che si direbbe apertamente provocatorio, se non fosse semplicemente coloniale.
Una Dichiarazione che non dichiara alcunché
Purtroppissimo per Darmanin, la Dichiarazione che tanto lo interessa, in nessun posto contiene un impegno ad interpretare il diritto internazionale come lo interpreta Parigi.
Tanto che la Boone è costretta ad inventare: “abbiamo concordato quest’estate di dire: questo è qualcosa che risolveremo in Europa. Quindi le barche attraccano nel porto più vicino”. In altri termini, l’unico appiglio è il riferimento, contenuto nel testo, alla disciplina europea la quale, però, non ha autorità fuori dalle acque territoriali e, quindi, non può disciplinare e non disciplina, né le leggi del mare, né la condotta degli Stati verso le Ong.
Perciò il ministro Piantedosi è libero di considerare le navi Ong come punto di primo ingresso e, quindi, i Paesi dei quali esse battono bandiere come Paese di primo ingresso: perché, né la Dichiarazione, né le norme europee disciplinano la materia dell’obbligo di approdo.
A meno che l’Italia non accetti condizioni più gravose: come Darmarin sostiene abbia fatto con la Dichiarazione ma, invero, l’Italia non ha fatto.
La lettura vera della Dichiarazione
Ciò che si sono pregiati di sottolineare, sabato, non solo Roma, ma pure Atene, Nicosia e La Valletta, con una dichiarazione congiunta dei rispettivi quattro ministri dell’interno.
Essa contiene una lettura vera della Dichiarazione, cioè come quelle quattro capitali leggono quel testo … in modo molto diverso da Parigi, ovviamente. Più precisamente, “non possiamo sottoscrivere l’idea che i Paesi di primo ingresso siano gli unici punti di sbarco europei possibili per gli immigrati illegali”. Cioè, tale idea non sta nella Dichiarazione alla quale si aggrappa Parigi.
Che è poi il concetto ribadito dal ministro Tajani: “chiederò quale accordo dice che quelli italiani sono i porti dove devono sbarcare tutti i migranti. Non mi risulta che esista”. Insomma, Parigi la smetta di aggrapparsi alla Dichiarazione e se ne inventi un’altra.
Una Dichiarazione non vincolante
Ma c’è di peggio, per Darmarin. La Dichiarazione che tanto lo interessa, checché ne dica Parigi, è tutt’altro che vincolante. Andando a leggerla, ci troviamo scritto che essa ha valore “non-legislativo”, non prevede alcun numero determinato di rifugiati da “rilocalizzare”, anzi prevede che qualunque impegno da dare anno per anno sarà solo “indicativo”, e precisa che i partecipanti potranno sempre sottrarsi invocando una generica clausola di forza maggiore.
Laddove non si capisce: se le altre parti contraenti non sono impegnate ad accogliere alcuno, perché mai l’Italia dovrebbe essere impegnata alle parti definitorie dello stesso testo che il ministro francese farnetica essere presenti?
In secondo luogo, la Dichiarazione non è mai stata implementata. Come ha ricordato Meloni: “90.000 persone entrate dall’inizio di quest’anno … si prevede che dovrebbero essere ricollocate circa 8.000 persone. Bene, sa quante ne sono state ricollocate finora: 117, 38 in Francia”.
Numeri non contestati da Parigi. Nonostante la patetica difesa tentata da Darmanin (“questi meccanismi sono pienamente operativi da diverse settimane”), dalla Colonna (“i meccanismi europei di aiuto e di ripartizione dello sforzo di solidarietà funzionano”) e dalla Boone (“una volta che le visite mediche, una volta che gli esami di sicurezza e una volta che gli studi delle domande di asilo avranno deciso se si tratta di migranti più economici, quindi una volta studiate le domande di soggiorno, esiste questo sistema di ricollocamento. Era appena iniziato … c’est un début”).
In replica diretta i quattro ministri mediterranei scandiscono: non solo “il meccanismo si è dimostrato lento”, ma pure “il numero di impegni di relocation assunti dagli Stati membri partecipanti, rappresenta solamente una frazione molto esigua del numero effettivo di arrivi irregolari”. Chiosando che, “tutto ciò è increscioso e deludente”.
Insomma, quand’anche la Dichiarazione contenesse quegli impegni che pure non contiene, lo stesso Roma sarebbe perfettamente libera di uscirne, come e quando le pare.
La sospensione del meccanismo di solidarietà
Perciò, pur in un profluvio di parole estremamente aggressive, la vera reazione di Darmarin si limita alla sospensione della Dichiarazione. Un atto scontato e senza effetto pratico (on marque le coup).
Possiamo dire, però, che Parigi terrà il punto. Infatti, mentre sospende la Dichiarazione nei confronti dell’Italia, la attiva nei confronti dei restanti Paesi dichiarandosi, per la Ocean Viking, Paese di primo ingresso: “possiamo contare sulla solidarietà europea … 80 persone in Germania, diverse persone in una decina di Paesi … ovviamente applicheremo questo meccanismo, che esiste”.
La non violazione di regole europee
La manifestazione di impotenza è tale, che Darmarin si vede costretto a fare di più. E, in preda ad una crisi di nervi, spara nel mucchio.
Anzitutto, “la Francia organizzerà, nei prossimi giorni, un incontro con la Commissione europea e con la Germania, che stabilirà, nel pieno rispetto del diritto internazionale, il quadro che consentirà di trarre le conseguenze dell’atteggiamento italiano, per regolamentare al meglio le azioni di soccorso in mare da navi delle ong nel Mediterraneo”. Laddove a prima vista si nota la tradizionale tendenza franco-tedesca a considerare Bruxelles come il proprio maggiordomo.
Egli precisa che si tratterà di “conseguenze estremamente forti … sui rapporti tra Europa e il governo italiano, che non può limitarsi alla questione migratoria: l’Europa non è à la carte”. Lo stesso esercizio fa la Boone, quando include la Dichiarazione fra “le regole europee”.
Purtroppissimo per loro, la Dichiarazione non è affatto parte della legislazione dell’Unione, bensì un separato accordo fra nemmeno tutti gli Stati membri.
Perciò, tutto ciò che la Commissione potrà fare, oltre a ricevere Francia e Germania, sarà rilanciare i negoziati sul mitologico Patto su Migrazione e Asilo: la nuova legislazione europea, immaginata per sostituire Dublino. Infatti, il servizievole Commissario Schinas accusa Roma di star bloccando il nuovo patto, proprio mentre annuncia un vertice straordinario dei ministri dell’interno.
Speranze di successo? Pochissime. Lo sa pure la Boone che, alla domanda “farete senza l’Italia?”, risponde: “non so dirlo. Spero che anche loro si rendano conto … che la soluzione è nella solidarietà europea”.
Non sa dirlo, perché Roma si oppone a ragione: il patto in discussione la penalizza sotto l’aspetto dell’obbligo al trattenimento, senza dare in cambio né ricollocamento né seri rimpatri.
Con le parole dei quattro ministri mediterranei: niente accettazione del principio “che i Paesi di primo ingresso siano gli unici punti di sbarco europei possibili per gli immigrati illegali”, in assenza di “un meccanismo di condivisione degli oneri che sia efficace, equo e permanente”. E qui verrebbe da abbracciare il nostro ministro.
Insomma, appellandosi alle regole europee, Parigi dimostra il proprio stato gravemente confusionale.
Il passaporto al confine francese
A violare regole europee, semmai, è lo stesso Darmarin, quando annuncia che “la Francia adotterà misure per rafforzare i controlli alle nostre frontiere interne con l’Italia nelle prossime ore”. Spiega la Boone: “chiudiamo le nostre frontiere con l’Italia, quindi controlli molto più serrati. Vuol dire che si può andare in Spagna normalmente, ma in Italia ci sono i passaporti, ci sono controlli seri”.
Il ministro Colonna precisa che lo scopo è indiretto: “da parte nostra abbiamo … rafforzato i controlli alle frontiere franco-italiane. A Roma va ricordato il suo dovere di umanità. Sperando che capisca il messaggio”. Cioè, Parigi non invoca alcun appiglio ammesso dalle regole europee (tipicamente: ragioni di ordine pubblico), bensì un motivo impertinente rispetto ad esse.
In gioco ci sono i mitici accordi di Schengen. Vero è che sono stati sospesi più volte e che ancora, qua e là, restano sospesi. Ma nessuno si era sin qui spinto a chiedere i passaporti. E nessuno si era sin qui spinto a sospenderli per un fine esplicitamente ritorsivo.
Purtroppissimo per Parigi, gli accordi di Schengen sono integrati nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione europea: fanno parte della legislazione dell’Unione. Tutto al contrario della Dichiarazione di giugno. Perciò, se proprio uno volesse parlare con chi viola le regole europee, ne cerchi il citofono sulle rive della Senna.
Le crisi francese
Alla luce di tutto ciò, non siamo affatto stupiti di vedere la crisi di nervi e d’impotenza francese eruttare in una minaccia apparentemente più grande, ancorché vaghissima: “è ovvio che ci saranno conseguenze estremamente forti sui rapporti bilaterali”, la Francia “trarrà pure tutte le conseguenze dell’atteggiamento italiano, sugli altri aspetti della sua relazione bilaterale”.
Il ministro non ha elaborato. Sicché, la domanda è stata girata alla Boone, la quale non ha saputo rispondere: “ne stiamo discutendo al governo, quindi non posso dirvi di più in questa fase”.
Perciò, ci si interroga sul non-detto: secondo La Stampa, “l’accordo sul tetto al prezzo del gas, la riforma del Patto di stabilità, del fondo salva-Stati, la revisione del Recovery Plan, la vendita di Alitalia, il futuro di Telecom. Da qualunque angolo lo si guardi non c’è partita che l’Italia possa vincere da sola”.
Ma viene da rispondere che ciò vale pure per la Francia, ad esempio: vuole essere cacciata a pedate dalla procedura Alitalia e da Telecom? Quanto al tetto al prezzo del gas, è una buffonata durata già troppo a lungo. Quanto alla riforma del Patto di Stabilità, è una tragedia in the making e meglio sarebbe per Roma mandare tutto all’aria. Quanto alla riforma del fondo salva-Stati (aka MES, aka ESM, aka Troika) è un orrore gotico dalla cui ratifica dovremmo scappare a gambe levate. Quanto alla revisione del Recovery Plan, meglio perderlo che trovarlo.
Ed ecco spiegato il sarcasmo del ministro Tajani: “non vedo quale ritorsione potrebbe mai fare la Francia”. Insomma, caro Darmarin, dai vieni avanti che ci vien da ridere.
La risposta fredda di Meloni
Venendo a Meloni, ella ritiene di avere una carta segreta: la Nato. Così ha detto, in conferenza stampa: “per quello che riguarda la richiesta di isolamento dell’Italia … non sarebbe intelligente per la condizione nella quale l’Europa si trova … noi siamo in mezzo a una guerra, abbiamo grandissime sfide da affrontare (quella migratoria è sicuramente una grande sfida)”.
Noi non possiamo che condividere tale auspicio, lo abbiamo scritto. Ma siamo pure coscienti che è un auspicio: è augurabile che Washington ci protegga dai franco-tedeschi, anzi è persino ragionevole pensare che accada. Ma nessuno può esserne certo.
Non solo, se pure accadrà finché dura la guerra in Ucraina, lo stesso Washington potrebbe perdere interesse una volta finita la guerra in Ucraina. E non vorremmo vedere cadere Roma, al posto di Kiev.
Just in case, Meloni farebbe meglio a prepararsi una via di fuga, un Piano B: che non potrebbe essere altro che monetario. Perciò è davvero un peccato che, in quella stessa conferenza stampa, il ministro Giorgetti abbia affondato la moneta fiscale.
Va bene, lui è un cripto-francese che definisce “un amico” il proprio omologo parigino … ma Meloni no: lei è il bersaglio degli amici di Giorgetti. Dunque ci rifletta, il presidente del Consiglio, ci rifletta bene.