Esteri

Ecco come Papa Bergoglio mette il turbo alla sua rivoluzione

Il senso di nomine sempre più “ideologiche”: morto Benedetto XVI, tradizionalismo privo di guida e Papa Francesco ne approfitta per impedire restaurazioni future

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Chiunque segua le vicende del pontificato di Papa Francesco sa della nomina di Víctor Manuel Fernandéz, detto El Tucho besame mucho, arcivescovo di La Plata, a prefetto del Dicastero della Dottrina della Fede.

In effetti, il trasferimento di Fernández (teologo mediocre e autore di testi il cui contenuto non intendiamo commentare, ma da anni amico, consigliere e ghost writer del Papa) non è solo una scelta che rientra nel campo che, politicamente, si chiamerebbe delle nomine inopportune (la Chiesa cattolica non è una democrazia: il Pontefice ha diritto di nominarsi i collaboratori che preferisce). È l’epifenomeno di un più vasto processo.

La nomina di El Tucho va, infatti, letta dialetticamente all’interno d’una catena di mosse politiche che, dal 31 dicembre 2022, ha repentinamente accelerato la riforma della Chiesa cattolica in senso francescano.

Un prima e un dopo

Che il pontificato di Francesco dovesse essere caratterizzato dai cambiamenti (si badi: usiamo il termine in senso neutro) è stato chiaro da subito; il Papa stesso non si stanca di ricordare che gli è stata affidata, dai cardinali interpreti dello Spirito Santo, una missione d’innovazione.

Restano, però, due questioni aperte: (1) a che punto sono tali innovazioni e, soprattutto, (2) dove porteranno la Chiesa? Alla seconda domanda non intendiamo rispondere: capire se, e in che modo, le nuove interpretazioni sociali e dottrinali di Francesco (sospese tra un Casarini al Sinodo e una Pachamama in San Pietro) stiano modificando l’animo profondo e la tradizione della Chiesa è tema che investe anche la fede del singolo, e qui non intendiamo farci interpreti dello spirito individuale.

Alla generica domanda: “A che punto sono le riforme?”, si può rispondere. Prescindendo da quale siano trama e obiettivi delle scelte del Papa, è evidente che, negli ultimi mesi, Francesco ha scosso il processo di riforma della Chiesa, e ha iniziato ad assegnare, con crescente velocità, sempre più posti-chiave a uomini di sua fiducia (personaggi spesso privi di storia episcopale passata e che, forti della giovinezza, devono e dovranno tutto al padrone del vapore): ora, tale processo ci sembra essere iniziato alla morte di Benedetto XVI.

Intendiamoci: che Papa Francesco avesse iniziato a tracciare la strada del cambiamento pur con l’emerito in vita è indubitabile (pensiamo a Traditionis Custodes o al Sinodo sull’Amazzonia e alle sue conclusioni green-friendly) ma, fino alla morte di Ratzinger (inconsciamente o per calcolo) la rivoluzione procedeva in modo relativamente non invasivo: la velocizzazione è iniziata a gennaio, sepolto l’Emerito ed esiliato il di lui segretario (e, con loro, molta della forza del tradizionalismo).

Il caso delle grandi arcidiocesi

Per capire cosa intendiamo con accelerazione della riforma, prendiamo il caso tre grandi arcidiocesi: Buenos Aires, Madrid, Bruxelles.

Benché le sedi fossero gestite da cardinali progressisti nominati da Bergoglio in quota Bergoglio (Poli, Osoro Sierra e De Kesel), si trattava di uomini anziani (al momento della nomina, Poli aveva 65 anni, Osoro Sierra 69 e De Kesel 68) e, comunque, già vescovi dai tempi di Ratzinger o, addirittura, Wojtyla. Pur progressisti, i tre cardinali non avrebbero potuto, se non altro per anagrafe, imprimere alle loro diocesi cambiamenti duraturi; inoltre, nessuno dei tre (a parte Poli) doveva niente a Francesco (Osoro Sierra era già metropolita di Valencia, De Kesel vescovo di Bruges).

Da chi sono stati sostituiti i tre arcivescovi? Da personalità stinte, ma fedeli al Papa e alla sua politica; preti di strada convinti della primazia della prassi sulla dottrina; giovani presuli che hanno innanzi a loro un mandato lungo e che iniziano la carriera da sedi cardinalizie, da cui difficilmente potranno essere cacciati.

Vivo Benedetto XVI, punto di riferimento involontario del tradizionalismo, Francesco non s’era arrischiato a nomine così ideologiche, preferendo pescare dal fondo Ratzinger i più progressisti dei vescovi di nomina benedettina, per dare alla sua rivoluzione un aspetto gentile: scegliere vescovi progressisti, ma non slegati dal passato, è stata un’acutissima mossa politica, nonché il modo migliore per sopire le paure della destra della Chiesa.

Le scelte di Curia

Anche le scelte di Curia rispettano la stessa logica. Pensiamo alla cacciata di Müller dalla Dottrina della Fede e alla sua sostituzione con Ladaria Ferrer. Benché i giornaloni di casa nostra abbiano presentato la decisione come una salutare ventata di progressismo nelle polverose stanze della Suprema, la nomina non fu eclatante: Ferrer è, per molti versi, un tradizionalista ed era già stato elevato vescovo e nominato segretario della Congregazione da Ratzinger.

Rispetto a Müller, tuttavia, Ladaria Ferrer ha tre doti: è gesuita, parla spagnolo e non ama andare sui giornali. Benché più malleabile, e meno mediatico, del predecessore, anche il teologo di Mallorca era anziano e, guarda caso, ora è stato sostituito con il giovane Fernández.

Passato oltre Benedetto XVI, la riforma francescana è giunta al miglio finale: il tradizionalismo, diviso in mille rivoli, è privo di guida, praticamente afono e Bergoglio (anche per ragioni personali) ha deciso di motorizzare la sua rivoluzione, mettendo da parte la gradualità che aveva caratterizzato il primo decennio del pontificato e, considerata la sua età, ci sembra lo faccia più per evitare restaurazioni future, e quindi condizionare l’elezione e l’azione dei suoi successori, che per rivoluzionare il presente.

Conferme

PS. Per suffragare la nostra ricostruzione, osservate Barcellona e guardate chi sostituirà il settantottenne cardinale Omella y Omella (nominato metropolita all’età di 69 anni).

PPS. Ho appena saputo che El Tucho e il nuovo, giovanissimo, e non ancora insediato arcivescovo di Madrid sono diventati cardinali. La nostra analisi ha già trovato conferma.

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