“Ho anche io una linea rossa: il 7 ottobre non si ripeterà”.
Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele
In una lunga intervista con il canale tv americano MSNBC, trasmessa il 10 marzo, il presidente degli Stati Uniti Joseph R. Biden ha tracciato una rotta di collisione con Israele, mettendo in luce l’esistenza di una crescente distanza tra l’amministrazione democratica e il governo Netanyahu.
Mai prima d’ora gli Usa e Israele, nonostante la loro occasionale divergenza di interessi, avevano mostrato pubblicamente differenze di vedute così nette su questioni così fondamentali. Neanche durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando il presidente Lyndon B. Johnson impose al ministro della difesa israeliano Moshe Dayan di fermare l’offensiva nella penisola del Sinai. Finora, tali differenze venivano appianate attraverso canali diplomatici discreti e la collaborazione tra agenzie di intelligence.
Le critiche a Netanyahu
Invece, rompendo con norme consolidate della politica estera Usa, il presidente Biden ha offerto ad una platea globale critiche aspre sull’offensiva militare di Gerusalemme nella Striscia di Gaza, lanciata in risposta all’attacco terroristico di Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre.
Biden ha affermato che le azioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu costituiscono un “grave errore” per non aver protetto adeguatamente i civili palestinesi. Biden ha sottolineato che, pur avendo il primo ministro il diritto di difendere Israele e perseguire Hamas, deve prioritariamente tutelare le vittime civili. Secondo Biden, l’approccio di Netanyahu non solo contraddice i valori per cui Israele si batte, ma mina anche i suoi interessi nazionali.
Questa critica pubblica del presidente Usa è senza precedenti, evidenzia il crescente divario tra i due alleati e sottolinea la significativa evoluzione nelle dinamiche della loro “relazione speciale”.
I numeri di Hamas
Inoltre, con un gesto che non ha mancato di sollevare polemiche anche a casa, Biden ha convalidato i dati sulle vittime di Hamas, attirando su di sé aspre condanne, poiché, così facendo, ha legittimato un’organizzazione terroristica. “Non possiamo permetterci di assistere ad altre 30.000 vittime palestinesi”, ha dichiarato Biden, riprendendo il bilancio delle vittime compilato dal gruppo terroristico, che dovrebbe includere almeno 13.000 miliziani combattenti.
Questi dati sono sempre stati ampiamente considerati dubbi e falsati. Ma ora Abraham Wyner ha presentato prove statistiche sul magazine Tablet. Il suo esame critico contesta il numero “totale” di vittime riportato. Wyner mostra che il grafico che rappresenta il numero totale di vittime nel tempo mostra un aumento lineare sospetto. Inoltre, i dati sulle vittime civili non appaiono credibili quando valutati con la misura statistica dell’R-quadrato (R2), che indica la correlazione con le vittime combattenti. Se i numeri fossero veri, R2 si avvicinerebbe significativamente a 1,0. Tuttavia, si attesta a un misero 0,017, statisticamente trascurabile.
Le contraddizioni di Biden
Biden, che comunque continua a sostenere la difesa di Israele, si è poi avventurato su un terreno scivoloso dichiarando l’incursione israeliana a Rafah, nel sud della Striscia, una “linea rossa”. Inoltre, ha espresso il desiderio di un cessate il fuoco, insistendo sui negoziati per lo scambio di prigionieri.
Tutti gli analisti hanno notato le contraddizioni nelle dichiarazioni di Biden. Quando gli è stato chiesto di ripetere se l’incursione a Rafah rappresentasse una linea rossa per il primo ministro israeliano, Biden ha risposto: “Sebbene rappresenti una linea rossa, non abbandonerò Israele. Salvaguardare Israele rimane prioritario”.
Da mesi, Biden ripete che Israele rischia di perdere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale a causa dell’escalation delle vittime civili a Gaza. Le sue recenti osservazioni sottolineano il rapporto sempre più teso tra i due leader. Gettando benzina sul fuoco, ha persino espresso la volontà di presentare il suo caso direttamente alla Knesset, il parlamento israeliano.
La replica di Netanyahu
Netanyahu ha prontamente contrattaccato alle osservazioni di Biden, affermando: “Non ho capito cosa intendesse il presidente”, in risposta all’intervista di Biden a MSNBC. Netanyahu ha dichiarato a Politico: “Tuttavia, se ha insinuato che sto perseguendo politiche personali contro i desideri della maggioranza degli israeliani, danneggiando gli interessi di Israele, allora si sbaglia su entrambi i fronti“.
“Queste politiche non sono un mio fatto personale”, ha sostenuto il primo ministro. “Sono sostenute dalla vasta maggioranza degli israeliani. I cittadini di Israele sostengono le nostre azioni risolute contro gli ultimi battaglioni combattenti dei terroristi di Hamas“.
Netanyahu sostiene che gli israeliani si oppongono anche all’installazione dell’Autorità Palestinese a Gaza. Inoltre, sostiene che gli israeliani appoggiano la sua posizione nel respingere la fondazione affrettata di uno Stato palestinese. “La maggior parte degli israeliani comprende che esportare il conflitto di Gaza [a Giudea e Samaria, ndr] porterà solo alla ricorrenza delle stragi del 7 ottobre, danneggiando sia gli israeliani che i palestinesi e mettendo a rischio le prospettive di pace in Medio Oriente”.
L’offensiva a Rafah
Le affermazioni di Netanyahu trovano sostegno nei dati. Un recente sondaggio dell’Israel Democracy Institute, come riportato dal Times of Israel, ha rivelato che il 75 per cento degli ebrei israeliani è favorevole all’offensiva militare a Rafah. Tra i sostenitori, il 45 per cento si identifica con la sinistra. Il sondaggio ha anche rivelato un’opinione pubblica divisa sulle relazioni con gli Usa: il 40 per cento è ottimista sul sostegno americano, il 34 per cento moderatamente, il 20 per cento pessimista. È da notare che il 70 per cento degli ebrei israeliani, incluso l’86 per cento degli ebrei secolari, chiede una revisione dell’esenzione degli ebrei ortodossi dal servizio militare, mentre solo il 19 per cento degli ebrei ortodossi lo sostiene.
“Quindi, l’idea che le mie politiche siano personali e manchino del sostegno della maggioranza è fallace. La maggioranza è unita come mai prima d’ora, capendo cosa è meglio e cruciale per Israele. E credo abbiano ragione.”
Per quanto riguarda le osservazioni di Biden riguardanti un’offensiva israeliana a Rafah, oltrepassando quella che ha definito una “linea rossa”, Netanyahu ha ribadito la determinazione del suo governo a schierare le forze israeliane nella città a sud della Striscia. In un’intervista al gruppo editoriale tedesco Axel Springer concessa poche ore dopo l’intervista di Biden con MSNBC, Netanyahu ha sottolineato il suo impegno, dichiarando: “Andremo a Rafah. Ho anche io una linea rossa. Il 7 ottobre non si ripeterà”.
Pressato su se Israele procederebbe anche senza il sostegno degli Usa, Netanyahu ha confermato: “Sì. Anche se preferiremmo avere quel sostegno”. Affrontando le presunte differenze tra gli Usa e Israele, ha inoltre sottolineato a Fox News l’11 marzo che tali divergenze “non aiutano a sconfiggere Hamas“.
Infine, Netanyahu ha respinto le accuse rivoltegli dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che, dopo essersi schierato con Hamas, lo ha paragonato a “Hitler, Mussolini e Stalin”. Netanyahu ha demolito l’autorità morale di Erdogan, affermando: “Israele, rispettando il diritto internazionale bellico, non accetta lezioni di morale da un leader che sostiene gli assassini e gli stupratori dell’organizzazione terroristica Hamas. Erdoğan nega il genocidio armeno, commette atrocità contro i curdi nel suo Paese e imprigiona giornalisti e dissidenti del suo regime.”
La rischiosa manovra di Biden
L’ambasciatore Sergio Vento sostiene che Biden abbia intrapreso una manovra politica ad alto rischio: “il presidente Usa vuole divergere dall’approccio di Netanyahu al conflitto di Gaza mantenendo al contempo la solidarietà con Israele nella sua lotta contro Hamas“.
L’analisi dell’ambasciatore trova riscontro nei reportage del sito d’inchiesta Axios, che citano funzionari Usa, indicando che il cambiamento di posizione di Biden nei confronti di Netanyahu non è stato causato da eventi specifici, ma piuttosto dalla somma di eventi recenti e decisioni del primo ministro israeliano. Secondo le fonti citate da Axios, Biden e figure chiave della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato sono sempre più frustrati da ciò che percepiscono come “ingratitudine” da parte di Netanyahu.
Nonostante abbia offerto un sostegno senza precedenti a Israele negli ultimi cinque mesi, anche in mezzo a una forte opposizione all’interno del Partito Democratico, Biden e il suo entourage ritengono che Netanyahu non abbia ricambiato adeguatamente. Un’indicazione fondamentale dell’approccio ostile di Biden è emersa durante il discorso sullo stato dell’Unione, nota Axios, dove il presidente ha evitato di menzionare Netanyahu per nome, optando invece per un riferimento alla “leadership di Israele.”
Il 9 marzo, il New York Magazine ha riferito che l’amministrazione Biden sta esplorando attivamente vie per indebolire il governo Netanyahu, cercando di spezzare la coalizione tra il Likud e la destra religiosa. La rivista rivela consultazioni tra funzionari americani ed esperti israeliani, per esaminare meccanismi che potrebbero destabilizzare il governo Netanyahu.
Un esperto israeliano non identificato ha rivelato di essere stato contattato da una figura di spicco dell’amministrazione, che indagava sulle potenziali vulnerabilità nella dinamica della coalizione di Netanyahu. Un esperto Usa intervistato dalla rivista suggerisce che la Casa Bianca percepisce Netanyahu come accerchiato e incapace di manovrare efficacemente, rendendo necessario un cambiamento drastico.
Nel frattempo, sia il ministro degli esteri israeliano Israel Katz che Benjamin Gantz, uno dei cinque componenti del gabinetto di guerra, considerano l’operazione a Rafah fondamentale per smantellare l’apparato militare e governativo di Hamas, un obiettivo che ritengono dovrebbe godere del pieno sostegno degli Usa e di Biden. Nel suo recente viaggio a Washington, Gantz ha sottolineato la necessità di smilitarizzare Rafah, sostenendo che porre fine al conflitto senza raggiungere questo obiettivo sarebbe come “chiedere ai pompieri di placare solo l’80 per cento di un incendio che divampa.”
L’iniziativa umanitaria di Biden
Durante il suo discorso sullo stato dell’Unione il 7 marzo, Biden ha annunciato una nuova mossa: utilizzare il genio militare Usa per costruire una piattaforma al largo della costa per ospitare navi che trasportano forniture essenziali come cibo, acqua e medicine a Gaza, che manca di infrastrutture portuali funzionanti. In un briefing del Dipartimento della Difesa dell’8 marzo, il portavoce del Pentagono Mag. Gen. Patrick S. Ryder ha spiegato che i lavori per la costruzione del molo e la sua strada di collegamento alla terraferma coinvolgerebbero circa 1.000 soldati Usa e durerebbero circa a 60 giorni.
Contemporaneamente, la partenza della nave militare USS General Frank S. Besson, poco dopo l’annuncio del presidente Biden, segnala l’immediato inizio dell’operazione, secondo quanto comunicato dal Comando Centrale Usa, Centcom.
Visioni contrastanti sul futuro
Il recente disaccordo sulla strategia di Israele a Rafah sottolinea un divario ideologico più profondo riguardante il “day after”. L’amministrazione democratica vuole una tabella di marcia a tappa forzate verso la fondazione di uno Stato palestinese in Giudea, Samaria e Gaza, culminante con l’installazione dell’Autorità Palestinese nella Striscia dopo l’operazione “Sword of Iron”.
Al contrario, la leadership di Israele si oppone fermamente alla fondazione affrettata di uno Stato palestinese incapace di sostenersi economicamente dal primo giorno e pertanto suscettibile di aumentare piuttosto che ridurre l’instabilità. In netto contrasto con il piano degli Usa, Netanyahu propugna un approccio incentrato sulla sicurezza regionale, chiedendo la continuazione della presenza militare israeliana al confine tra Gaza ed Egitto e proponendo la sostituzione dell’UNRWA, i cui funzionari sono risultati collusi con Hamas, con organizzazioni internazionali di assistenza alternative.
Inoltre, in un discorso in video all’America Israel Public Affairs Committee (AIPAC) il 12 marzo, il primo ministro ha pronunciato parole audaci di vittoria imminente, affermando: “Stiamo marciando verso un trionfo inequivocabile“.
Netanyahu ha anche confermato l’eliminazione di figure chiave di Hamas, in particolare Saleh al-Arouri. Le rivelazioni di Netanyahu sottolineano i successi operativi di Israele, compresa l’eliminazione silenziosa di leader di alto livello di Hamas. In un’intervista a Bild l’11 marzo, Netanyahu ha anche rivelato il sostegno occulto esteso da nazioni arabe agli sforzi anti-Hamas di Israele.
Pur non denunciando pubblicamente Hamas, i leader di alcuni Stati arabi non menzionati, che l’ambasciatore Vento identifica come Giordania, Egitto e Arabia Saudita, riconoscono privatamente la minaccia rappresentata dal gruppo terroristico sostenuto dalla Repubblica Islamica dell’Iran. Netanyahu ha sottolineato la loro cooperazione tacita, evidenziando l’accordo multilaterale per lo smantellamento della rete terroristica regionale iraniana.
La tempistica della crisi è sfortunata. Considerando che Biden sta affrontando una rielezione altamente incerta il 5 novembre, è desideroso di non alienarsi il voto musulmano negli Usa. Di conseguenza, si è imbarcato in un accordo tra Washington e Ramallah dietro le quinte. L’alleanza tra gli Usa e l’Autorità Palestinese è evidente: il presidente della PA Mahmoud Abbas, dopo aver sottolineato l’imperativo per Hamas di cedere il controllo di Gaza alla PA, ha annunciato un nuovo governo in Giudea e Samaria affidato a Mohammed Mustafa in sostituzione di Mohammad Shtayyeh.
Il tema cruciale: Giudea e Samaria
L’ambasciatore Vento sottolinea che il vero campo di battaglia si trova proprio in Giudea e Samaria, affermando: “Se Gaza rappresenta la punta dell’iceberg, la lotta in corso si svolge in Giudea e Samaria”. La scorsa settimana, la Commissione Suprema di Pianificazione ha dato il via libera alla costruzione di 3.500 unità abitative nella città-insediamento di Maaleh Adumim, nel villaggio di Keidar e a Efrat, vicino a Betlemme. Pur rispondendo esplicitamente a un attacco palestinese vicino a Maaleh Adumim che ha causato due vittime israeliane, la decisione ha suscitato l’ira di Washington.
In una conferenza stampa tenuta il 6 marzo, il Dipartimento di Stato ha condannato la mossa, definendo gli insediamenti un ostacolo perpetuo alla pace e una violazione del diritto internazionale. Il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew A. Miller ha affermato: “Gli insediamenti non solo infliggono danni alla popolazione palestinese, ma minano la sicurezza di Israele e ostacolano le prospettive di un accordo sostenibile che favorisca una vera pace e sicurezza per gli israeliani”.
In risposta, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha ribadito la determinazione alla tutela della sicurezza israeliana, affermando: “Nell’ultimo anno, abbiamo autorizzato 18.515 unità abitative in Giudea e Samaria”. Smotrich ha presentato l’espansione degli insediamenti come una risposta strategica alle minacce esterne, sottolineando la resilienza di fronte ai continui attacchi contro Israele anche se a bassa intensità.
Secondo Niram Ferretti, uno specialista di Medio Oriente, Netanyahu e il governo attuale sono il principale baluardo contro invasioni della sovranità israeliana, in particolare contro quelle che vedono come iniziative americane sbagliate.
“Questo sentimento – spiega Ferretti – è racchiuso nella dura posizione nazionalista dell’attuale amministrazione, che, pur essendo occasionalmente provocatoria, resta basata su una comprensione pragmatica delle dinamiche regionali. La loro intima familiarità con le sfumature delle interazioni arabe deriva da un’eredità e un’educazione condivise, contrastando nettamente con gli advisor politici democratici la cui comprensione del Medio Oriente è spesso offuscata da teorie astratte distaccate dalla realtà vissuta”.
Nel paesaggio intricato del Medio Oriente, ogni manovra in Giudea e Samaria riverbera oltre i desideri. Cioè dovrebbe risuonare come monito a un’amministrazione democratica e ad un presidente in cerca di un punto d’appoggio permanente nella regione. Mentre Biden continua a navigare tra l’aspirazione di preservare la relazione strategica con Israele e la necessità di promuovere la pace nel Medio Oriente, il suo obiettivo rimane sospeso tra le richieste conflittuali “alte” della politica internazionale e quelle “basse” di una assai problematica rielezione.