Eccoci al dunque. Dopo tanti annunci, i dazi Usa entrano in vigore, presentati ieri sera dal presidente Donald Trump con tanto di tabelle. Non si salva nessun Paese. C’è una soglia di default del 10 per cento che scatterà dal 5 aprile, ma poi il principio guida è la “reciprocità”. I Paesi più “cattivi”, quelli con i più ampi squilibri commerciali, che hanno eretto barriere commerciali più alte nei confronti dei prodotti Usa – tariffarie e non – vengono colpiti più duramente con “dazi reciproci” (dal 9 aprile).
Significative le eccezioni: il 25 per cento su tutte le auto prodotte all’estero (dal 3 aprile) ma – attenzione – esenzioni su materie prime e prodotti energetici, come acciaio e alluminio, rame, farmaceutici, semiconduttori, energia e minerali non presenti negli Usa.
L’Unione europea tutto sommato non è tra i peggiori: 20 per cento. Cina 34 per cento (per un complessivo 54 per cento), India 26, Giappone 24, Corea del Sud 25, Indonesia 32, Thailandia 36, Vietnam 46, Cambogia 49, mentre nei confronti del Regno Unito restano al 10 per cento. Diciamo che l’Asia è quella che ne esce peggio, Europa bastonata con la significativa eccezione del Regno Unito, mentre Canada, Messico e America Latina vengono (per ora) “graziati”.
Il principio di reciprocità
Occhio anche al principio guida della “reciprocità”, che non va inteso come “parità”. Dalla tabella esposta dal presidente e fornita dalla Casa Bianca si evince infatti che a ciascuno Paese verrà applicato un “dazio reciproco scontato” che ammonta alla metà dei dazi di quel Paese sulle esportazioni americane, ovviamente secondo i calcoli dell’amministrazione Usa. “Poiché siamo molto gentili”, ha detto Trump durante il suo annuncio al Rose Garden, “addebiteremo loro circa la metà di quanto stanno addebitando – e hanno addebitato – a noi”. Per esempio, il 20 per cento sui prodotti Ue a fronte del 39 per cento che l’Ue imporrebbe ai prodotti Usa.

Il principio generale della reciprocità è fondamentale perché fa capire che a fronte della disponibilità dei partner commerciali ad abbassare le proprie barriere, gli Usa farebbero altrettanto. Quindi, se prevarrà il buon senso, se non verrà intrapresa la strada della ritorsione ma quella del dialogo e del negoziato, avremo più libero scambio, non meno, solo più equilibrato.
Le barriere non tariffarie
Occhio però, perché non basterà ritoccare semplicemente le proprie aliquote sui prodotti Usa. Come ha chiarito un alto funzionario della Casa Bianca, il problema di fondo sono proprio le “barriere non tariffarie”. Secondo la Casa Bianca, “qualsiasi Paese che pensi di poter semplicemente fare un annuncio promettendo di abbassare i dazi”, sta ignorando il problema di fondo che “le enormi barriere non tariffarie” istituzionalizzano schemi commerciali per “fregare l’America”.
La percentuale applicata da ciascun Paese sui prodotti Usa che vediamo nella tabella tiene conto infatti anche delle barriere non tariffarie e della manipolazione monetaria. Si tratta della Dop-economy citata dal presidente Mattarella. Un calcolo discrezionale ma tutt’altro che arbitrario, perché le valutazioni Paese per Paese sono basate su fatti e raccolte in un documento pubblico.
Il funzionario Usa ha osservato che ci vorrà “molto tempo” prima che i Paesi rimuovano le “barriere non tariffarie” al commercio, citando manodopera sfruttata, paradisi dell’inquinamento, sussidi all’esportazione, furto di proprietà intellettuale e vincoli agricoli tra i molti fattori che influenzano negativamente il commercio con gli Stati Uniti. Le “massicce barriere non tariffarie” sono ciò che “deve essere eliminato per risolvere questa emergenza nazionale”.
I muri dell’Ue
L’Unione europea è campione di queste barriere non tariffarie, che spesso impediscono del tutto l’importazione di intere classi di prodotti made in Usa. Basti guardare il National Trade Estimate Report sulle barriere commerciali per rendersene conto.
La parte sulle barriere non tariffarie del capitolo dedicato all’Ue è lunghissima (oltre 30 pagine) e c’è davvero tutta la follia regolatoria e burocratica bruxellese. Si va dalla complicazione del calcolo del singolo dazio alla mancanza di trasparenza e uniformità delle procedure doganali; dalle classificazioni ed etichettature alle regolamentazioni (sanitarie e fito-sanitarie, pesticidi e biotecnologie, sui gas fluorurati ad effetto serra, sul packaging e la plastica, sulla sostenibilità ambientale dei prodotti, sui servizi digitali e audiovisivi, e così via), dalle barriere agli investimenti esteri ai sussidi statali (sì, ci sono anche quelli).
E ovviamente vengono citati come barriere commerciali il Digital Services Act e la tassazione sui servizi digitali, il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), la tassa sulle emissioni di Co2 incorporate nei prodotti importati, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, e ultimo nato l’Artificial Intelligence Act.
In un negoziato commerciale dovrà obbligatoriamente entrare tutto questo, non solo il numeretto, le percentuali dei dazi, che dicono molto poco, sicuramente nel caso dell’Ue, delle barriere commerciali nei confronti dei prodotti Usa.
E dovranno entrare anche le manipolazioni valutarie e la compressione dei salari. Nel fact-sheet della Casa Bianca si legge che “Paesi tra cui Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud hanno perseguito politiche che sopprimono il potere di consumo interno dei propri cittadini per aumentare artificialmente la competitività dei loro prodotti di esportazione. Tali politiche includono sistemi fiscali regressivi, sanzioni basse o non applicate per il degrado ambientale e politiche volte a sopprimere i salari dei lavoratori rispetto alla produttività”. Vi ricorda qualcuno?
Come reagire?
Il suggerimento del segretario al tesoro Scott Bessent: “Il mio consiglio a tutti i Paesi in questo momento è: non fate ritorsioni. Sedetevi. Comprendetelo. Vediamo come va. Perché se reagite, ci sarà un’escalation. Se non reagite, questo è il punto più alto”. C’è un passaggio chiave nella nota della Casa Bianca:
L’ordine IEEPA di oggi contiene anche un’autorità di modifica, consentendo al presidente Trump di aumentare le tariffe se i partner commerciali reagiscono o di ridurle se i partner commerciali adottano misure significative per porre rimedio ad accordi commerciali non reciproci e allinearsi con gli Stati Uniti su questioni economiche e di sicurezza nazionale.