Egitto e Turchia, quando un golpe militare è il male minore

Due casi che dimostrano come i militari al potere non siano sempre sono il male assoluto, checché ne pensino le anime belle a Roma e a Bruxelles

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La nostra opinione pubblica è abituata a pensare che i golpe militari siano, in ogni caso e comunque, un male da evitare. Naturalmente vi sono ottime ragioni a sostegno di questa tesi. Il golpe, per definizione, rappresenta una sospensione della democrazia e un’assunzione del potere da parte di forze non legittimate sul piano elettorale. Quasi sempre, inoltre, esso si abbina alla violenza esercitata nei confronti di vasti strati della società. Violenza che si manifesta con retate di oppositori, controllo immediato della tv e di ogni altro organo d’informazione, presenza di tank e soldati nelle piazze.

Tutto questo ripugna alle nostre menti sensibili ai diritti umani e alla sacralità del consenso popolare. Talvolta qualcuno rammenta opportunamente che, a ben guardare, Hitler giunse al potere conquistando la maggioranza dei voti. Ma, tant’è, l’obiezione viene giudicata trascurabile. Eppure è a mio avviso ragionevole argomentare a favore del golpe quando le circostanze fanno capire che non esistono alternative plausibili.

Il caso egiziano

Il caso egiziano è a tale proposito emblematico. L’assassinio di Giulio Regeni ha indotto molti a strepitare contro Al-Sisi e la sua giunta e a chiedere che nel più grande Paese arabo venga subito ristabilita la democrazia.

Sì, ma quale? Costoro dimenticano – e non si capisce sino a che punto siano in buona fede – che un Egitto in mano alla Fratellanza Musulmana di Mohamed Morsi avrebbe rappresentato un pericolo ben maggiore, a dispetto del sostegno (almeno iniziale) fornito a quei tempi da Hillary Clinton alle cosiddette “primavere arabe”.

La Turchia di Erdogan

C’è però un altro caso ancor più significativo. Parlo della Turchia, nazione di fondamentale importanza nello scacchiere mediterraneo, in Medio Oriente e nella struttura della Nato. Come tutti sanno Recep Tayyip Erdogan è riuscito, con molta abilità, a neutralizzare i vertici militari d’ispirazione kemalista che per decenni avevano garantito, oltre alla laicità del Paese, la sua sicura collocazione nel campo occidentale.

Quando gli è stato chiesto quale fosse a suo avviso la chiave per risolvere i problemi turchi, il “sultano” ha risposto “islam, islam, islam”. Papale papale, e senza la benché minima ombra di dubbio, alla faccia dell’iniziale moderazione con cui il suo partito AKP si era presentato anni fa sulla scena politica interna e internazionale.

Nel frattempo la Turchia è sprofondata nel caos grazie all’ambiguità dello stesso Erdogan, durissimo con i curdi e conciliante – di fatto – nei confronti del fondamentalismo islamico. Dopo aver attribuito ai curdi la lunga serie di massacri che ha colpito il Paese, finalmente il suo governo ha riconosciuto che almeno alcuni sono chiaramente opera di fondamentalisti musulmani.

In una situazione simile credo non sia un peccato sperare – e uso intenzionalmente tale verbo – che qualche fiammella di kemalismo sia sopravvissuta nelle forze armate nonostante la profonda opera di eradicazione messa in atto dal sultano. E che essa si traduca in un colpo di stato simile a quelli avvenuti in passato, e sempre condannati dai governi occidentali.

Si tratta, ovviamente, solo di una speranza che molti deprecheranno. E a questo punto non è chiaro se essa possa tradursi in atti concreti. La succitata eradicazione è stata infatti profonda e capillare. Ma, come dicevo all’inizio, è chiaro che i golpe militari non sempre sono il male assoluto, checché ne pensino le anime belle a Roma e a Bruxelles.

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