Il 14 maggio 2023 sarà un giorno importante per la Turchia: 64 milioni di elettori saranno chiamati, con le elezioni presidenziali (forse le prime incerte dal 2014), a scegliere tra l’immarcescibile Recep Tayyip Erdoğan (AKP), Kemal Kılıçdaroğlu (CHP), Muharrem İnce (MP) e Sinan Oğan (nazionalista indipendente). Ricordiamo che le elezioni presidenziali in Turchia sono regolate dall’articolo 78 della Anayasası (riformata nel 2017), e si svolgono con un sistema a doppio turno.
Ora: a leggere i giornali italiani pare che Erdoğan sia destinato a scontrarsi al ballottaggio con Kılıçdaroğlu (ipotesi tutt’altro che peregrina); meno certa, a nostro giudizio, è l’affermazione di alcuni (un wishful thinking, forse, più che un’analisi) secondo cui, per il presidente uscente, diventerebbe pressoché impossibile affermarsi sul concorrente al secondo turno.
Base elettorale di ferro
Nonostante il calo di consensi patito dal Sultano dopo il terremoto di Gaziantep del 6 febbraio scorso, e a causa della svalutazione della Lira (che ha portato l’inflazione a viaggiare attorno a un inquietante +83 per cento su base annua, nel 2022), è innegabile che Erdoğan sia riuscito a crearsi (anche grazie alla sua ben nota e ottimamente sfruttata grandeur neo-ottomana) una base elettorale di ferro, in particolare in quella Turchia conservatrice lontana ore d’infinita autostrada da İstanbul o İzmir.
Parliamo delle province d’Ankara, Konya, Kayseri, Sivas o Çorum (potrei citarne altre venti su ottantuno): tutte circoscrizioni che, dal lontano 2002, non hanno mai marcato visita innanzi al Sultano e che, con percentuali bulgare (vedi il 74,5 per cento a Konya nel 2015), hanno assegnato la vittoria all’AKP sia alle elezioni parlamentari che, dal 2014, alle presidenziali.
Non siamo statistici, ma ci sembra strano che questi – per i competenti – Pocket Boroughs (ove l’AKP scarta i suoi avversari di 60 punti) improvvisamente voltino le spalle al Sultano, nonostante il rinnovamento dell’elettorato (i giovani sembrano diffidare di Erdoğan e delle sue politiche) e il fatto che, nelle grandi città delle coste egea e mediterranea, l’AKP non si sia mai imposto: difficilmente questo “vento cittadino” potrà spirare con vigore nella Turchia profonda.
Tutto ciò premesso, in queste righe non esamineremo le questioni contingenti dello scontro elettorale tra AKP e CHP; ci proporremo invece, aiutati dal saggio di Erik Zürcher “Porta d’Oriente” (Donzelli Editore), di delineare la storia elettorale di Erdoğan (al netto dell’abbondante condimento di brogli, incarcerazioni politiche, controllo di media e social, deviazioni rispetto alla costituzione, annullamenti di tornate sfavorevoli e tutta un’altra serie di illiberalità, la cui esistenza e gravità la nostra disamina non intende sottovalutare).
Il terremoto del novembre 2002
Le elezioni generali del 3 novembre 2002 furono un terremoto politico: un nuovo partito, guidato da un leader incarcerato qualche mese prima per aver pronunziato un discorso “che minacciava lo Stato”, l’ex sindaco di İstanbul Recep Tayyip Erdoğan, ottenne la maggioranza alla Grande Assemblea, consegnando i partiti che sinora avevano governato la Turchia, come il socialdemocratico DSP e il nazionalista ANAP, al totale oblio.
Uscito dal carcere nel 2003, Erdoğan (che sino a quel momento aveva fatto governare per lui Abdullah Gül, futuro presidente della Repubblica) divenne primo ministro e iniziò la sua irresistibile ascesa.
Fra il 2003 e il 2006 il governo attuò un serrato programma di riforme (circa 300) e la Grande Assemblea legiferò, approvando decreti esecutivi, riguardo a infinite questioni: rapporto tra politica ed esercito, diritti umani, procedura penale, libertà di stampa …
Insomma, l’AKP guardava all’Ue e dichiarava d’ispirarsi alle legislazioni degli Stati membri per riformare l’immagine orientaleggiante e autoritaria dello Stato. Per tutta la durata di questo percorso l’opposizione, incapace di fermare il treno delle riforme erdoğaniane, si limitava a gridare al “pericolo islamizzazione”, consegnandosi così, con le sue stesse mani, all’irrilevanza, in particolare in quelle province (futuri serbatoi di Erdoğan) ove, ancora oggi, non ci si vergogna di portare il velo e di dire che di venerdì si va in moschea a pregare.
Lo scandalo Ergenekon
Fatto eleggere, dopo un duro scontro con l’opposizione, l’amico Gül alla presidenza della Repubblica (agosto 2007), Erdoğan fece approvare una riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente della Repubblica (puntando al ruolo). Questa decisione, sembra, mise in agitazione gli ambienti militari.
È interessante notare che sin dagli anni ’70 esisteva in Turchia una rete semiclandestina di membri dell’esercito (istituzione a cui, peraltro, la Costituzione affidava il compito di difendere la laicità dello Stato) chiamata Kontragerilla – una specie di Gladio in salsa Cacık – che, all’inizio, s’era interessata della soppressione della sinistra radicale; riorganizzata poi negli anni ’90 da Veli Küçük, la rete si era dedicata alla guerra a bassa intensità contro i curdi del PKK: è di quegli anni il nome Ergenekon.
Sarebbe lungo raccontare come un’indagine su un giornalista di nome Güney riuscì a evolversi in uno scandalo politico, sta di fatto che nel gennaio 2010 la rivista Taraf pubblicò dei documenti che provavano come l’Ergenekon, dal 2008, stesse approntando un golpe per destituire il governo Erdoğan, magari mettendo in mezzo anche la Grecia, storica nemica.
La prima purga nelle forze armate
Durante il processo, esperti calligrafici affermarono chiaramente che i documenti pubblicati da Taraf erano fasulli: quale che sia la verità, Erdoğan e l’AKP ne approfittarono per attaccare le forze armate: vennero arrestate, processate e condannate (spesso all’ergastolo) persone che, fino al giorno prima, erano a capo dello Stato maggiore.
Il partito trasformò l’esercito da forza indipendente, capace di controbilanciare la politica, e perciò garante dello Stato, in un burattino nelle mani dell’Esecutivo. In quel processo, emerse per la prima volta il nome del predicatore Fethullah Gülen.