Nella prima parte abbiamo parlato del voto di oggi, della base di consenso su cui può ancora contare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ma anche della sua ascesa e di come ha consolidato il suo potere, fino alla comparsa del nome del predicatore Fethullah Gülen.
Fethullah Gülen: chi era costui?
Figlio d’un imam d’Erzurum, Gülen crebbe studiando le liriche, a metà tra Islam e zoroastrismo, di Jalāl al-Rūmī, primo maestro dei dervisci. Nel 1969 Gülen fonda un’associazione chiamata Hizmet (Servizio) il cui core business è l’istruzione dei giovani: attraverso una rete di scuole private, Gülen impartisce alle giovani coscienze una formazione aperta all’Occidente e alle teorie moderne, purché coerenti con la morale islamica.
A partire dagli anni ’80, l’associazione divenne indicibilmente potente, avendo assorbito anche licei e università: entro il 1996, Servizio (grazie al sostegno d’un ampio gruppo di funzionari formatisi all’interno delle sue accademie sparse nell’Anatolia), s’era ormai insediato in ogni ingranaggio dello Stato: cattedre, ministeri, tribunali.
Non stupisce che, dopo la vittoria del 2002, all’inesperto AKP (partito neonato e privo di classe dirigente), il complesso network di boiardi ben piazzati sia sembrato una manna; e tale manna, benedetta dall’alleanza politica tra Gülen e il Sultano, cadde per dieci anni.
L’età dell’oro dell’AKP
Come nota Erik Zürcher “Porta d’Oriente” (Donzelli Editore), il periodo tra il 2007 e il 2012, per l’AKP rappresentò l’età dell’oro.
Attenendosi alle indicazioni dell’FMI, Erdoğan attuò una politica che fece crescere la traballante economia turca del 6 per cento per cinque anni consecutivi, provocando il crollo dell’inflazione (dal 55 al 10 per cento in quattro anni) e il dimezzamento del debito. Certo, la crisi del 2008 colpì anche la Turchia, ma l’economia seppe riprendersi molto velocemente, segnando un netto +9 per cento nel 2010 e nel 2011.
Sono anni di crescita del consenso: pur dichiarandosi un partito tradizionalista, l’AKP ebbe l’intuizione di guadagnarsi le simpatie dei musulmani devoti senza attuare un’aperta politica d’islamizzazione: le scelte in ambito morale erano infatti propagandistiche (si pensi alla campagna pubblicitaria contro le effusioni in pubblico) ma non colpivano il cuore laico dello Stato: in questo modo, l’AKP non allarmava i moderati, e piaceva ai conservatori.
In quel periodo la simbiosi tra Gülen ed Erdoğan era totale, e portava vantaggi a entrambi: il predicatore guadagnava adepti e il suo giornale, Zaman, diventava il più diffuso di Turchia; il Sultano, da par suo, si assicurava la fedeltà del deep state güleniano.
La spaccatura
Ma Gülen stava diventando troppo potente: in quest’ottica, il suo coinvolgimento nel caso Ergenekon e, poi, nello Scandalo-corruzione del 2013 non può che essere interpretato come un tentativo di rimettere nei ranghi lo scomodo predicatore.
A fine del 2013, anno duro per Erdoğan (contestato in estate nelle Proteste di Piazza Taksim), la stampa rilanciava una notizia-bomba: alcuni funzionari legati all’AKP avevano trasferito illegalmente denaro in Iran in cambio di petrolio e gas; altri, invece, avevano ricevuto mazzette per cantierare zone tutelate.
La reazione del primo ministro fu duplice: inizialmente, avviò un rimpasto di governo, poi purgò le alte sfere della polizia e della magistratura, nella speranza di ottenere, per i suoi, un trattamento favorevole. Ma ex malo bonum: da genio politico quale è, il Sultano approfittò della scivolosa situazione per liberarsi di Gülen; i membri dell’AKP iniziarono a gridare al complotto e accusarono il predicatore d’aver montato lo scandalo ad arte aiutato dalla stampa (d’altronde, Gülen era il fondatore del giornale più venduto di Turchia).
Si cercava un agnello sacrificale, lo si trovò; si cercava un movente, lo si costruì: Gülen si è inventato tutto, si urlava dall’AKP, per punire l’Esecutivo reo d’aver deciso la chiusura di tutte le scuole del Servizio. Se c’è del vero in questa accusa, non lo sappiamo.
Sta di fatto che pm e giudici (opportunamente indirizzati da Erdoğan che, abbandonato nel 2014 il premierato, s’era fatto eleggere presidente nelle prime elezioni presidenziali dirette) iniziarono a indagare sul predicatore, che decise da par suo di rifugiarsi negli Stati Uniti e, dalla Pennsylvania, ispirò (non si sa quanto direttamente) ogni successivo tentativo di opporsi all’erdoğanismo.
Il golpe del 2016
Dal 2013 la Turchia è un vulcano borbottante, e le notizie dall’Anatolia compaiono sui giornali internazionali ogni giorno. D’altronde nel 2016, nella sola İstanbul, avvengono quattro attentati per un totale di 105 morti e 353 feriti (praticamente un ferito al giorno e un morto ogni tre). D’altronde, il coinvolgimento della Turchia nella lotta contro l’Isis (che, in effetti, si è sempre mescolato con l’interesse a colpire la minoranza curda) doveva esser punito. Ma il 2016 è, per Erdoğan, un annus horribilis anche per un’altra ragione.
Il 15 luglio la serata è tranquilla e tiepida: alle ore 22.00, l’esercito chiude il grande Ponte sul Bosforo e prende il controllo degli aeroporti, dei centri del potere e delle sedi delle televisioni a İstanbul e Ankara, annunciando dalla Rete di Stato che i membri del governo sono stati arrestati. La popolazione è stordita: di Erdoğan si sono perse le tracce: i giornali internazionali battono all’unisono: “È colpo di Stato!”
La svolta nella nottata: il presidente, dall’aereo presidenziale, parla attraverso FaceTime: annuncia che lui e i membri del governo sono in salvo e invita i turchi alla resistenza; il comandante della I Armata chiarisce che l’esercito non appoggia il golpe; il popolo scende in piazza a İstanbul, Ankara e İzmir; i muezzin della Moschea Blu salmodiano il messaggio del presidente; gli imam gridano che opporsi ai golpisti è atto di fede.
Nella successiva battaglia lungo le strade dell’antica Bisanzio e di Ankara rimangono uccise 300 persone: i cosiddetti Martiri del 15 Luglio; all’alba, esercito e polizia riprendono il controllo degli aeroporti: il golpe è fallito.
La reazione
Chi c’era dietro tutto questo? Forse Gülen, e questa è la teoria del presidente. Era forse un golpe da operetta, una false flag con la quale Erdoğan si precostituì l’alibi per una successiva epurazione? Entrambe le teorie hanno le loro ragioni.
Sta di fatto che, da quel 15 luglio, Erdoğan impone uno stato d’emergenza stretto e perpetuo: vengono arrestate 80 mila persone (in maggioranza membri delle forze armate e della magistratura) e il Sultano governa per decreto, prima attraverso il suo uomo di paglia Binali Yıldırım, ultimo premier della storia e poi, con la riforma costituzionale del 2017, di persona, avendo trasformato la Turchia in una Repubblica presidenziale.
Ora è il momento di chiudere la nostra narrazione: sarà la storia a dirci che ne sarà del sultanato erdoğaniano: di certo, in questo maggio, è giunto il redde rationem.