Il punto sulla guerra in Ucraina, il rischio di una escalation nucleare e la delicata posizione di Putin, ma anche la posta in gioco su Taiwan, i “capricci” di Erdogan e il ruolo dell’Italia. Questi i temi affrontati da Fabrizio Luciolli, presidente del Comitato Atlantico Italiano, con Atlantico Quotidiano.
La minaccia nucleare
TOMMASO ALESSANDRO DE FILIPPO: Presidente Luciolli, come valuta l’andamento del conflitto in Ucraina ed i rischi di ulteriore escalation, anche nucleare, da parte di Mosca?
FABRIZIO LUCIOLLI: Il rischio di escalation nucleare è possibile, anche se non ancora probabile. Tale scelta dovrebbe avere l’approvazione di tre persone in Russia: il presidente Putin, il capo dell’esercito, il ministro della Difesa. Non è detto che i tre sarebbero d’accordo su una soluzione tanto drammatica quanto disperata.
In caso di attacco nucleare all’Ucraina, la risposta degli Stati Uniti sarebbe durissima, anche se penso si concentrerebbe su un’azione convenzionale mirata quanto devastante sulla flotta del Mar Nero o sull’enclave di Kaliningrad, più che sul lancio di missili nucleari.
Le perdite di Mosca
Tuttavia, l’aspetto che desidero menzionare è quello relativo al potere in Russia e all’andamento del conflitto: Mosca ha subito perdite umane e militari irreparabili. Per riprodurre il numerico di mezzi ed armi andate distrutte in Ucraina ci vorrebbero 4-5 anni, a fronte di una spesa elevata che una nazione quasi povera e sotto pesanti sanzioni difficilmente potrebbe permettersi.
La vendita di gas e petrolio ad altri stati come Cina e India avviene ad un prezzo molto inferiore rispetto al nostro, fattore che certamente non arricchisce la Federazione russa.
Pertanto, se l’Occidente riesce a rimanere compatto nel suo sostegno militare a Kiev e sulle sanzioni, nel giro di poco tempo la Russia torna indietro di trent’anni e sparisce per il breve-medio termine dallo scenario geopolitico globale.
Putin sopravvalutato
Abbiamo sopravvalutato l’autocrate del Cremlino: si è dimostrato incapace in campo economico, dato che la Russia è povera; sul piano diplomatico, perché non ha saputo trattare pacificamente; e sul piano militare, perché la cosiddetta “operazione speciale” è un fallimento, con la mobilitazione parziale che manderà altre 300 mila unità poco esperte a morire o venire arrestate in Ucraina.
Il fattore del fallimento militare potrebbe costare anche la perdita del potere per Putin, ma non sappiamo in tal caso chi arriverebbe dopo di lui. Infatti, un cambio di regime al Cremlino potrebbe essere operato dai “falchi” e non dalle “colombe”, portando alla guida della Russia qualcuno più aggressivo e ancor più deciso a sfidare la Nato.
Non resta che osservare gli sviluppi e restare uniti come Unione europea, Nato e intero Occidente, al fine di sconfiggere la minaccia di Mosca nel prossimo futuro.
Non ignorare la crisi
TADF: L’Ue riuscirà a rimanere compatta sul sostegno militare all’Ucraina e le sanzioni alla Russia? Che posizioni dovrà avere il nuovo governo italiano in materia?
FL: L’Unione europea ha sinora dato prova di compattezza a fronte dell’arrogante atteggiamento del Cremlino. Tale compattezza è emersa per quanto riguarda le sanzioni alla Russia e il sostegno militare all’Ucraina, relativamente al quale non mi sembra si siano manifestati ad oggi, pur in presenza di talune esitazioni sui tempi delle forniture da parte di Berlino, smarcamenti di sorta.
Naturalmente non sarebbe saggio ignorare i segnali di forte disagio che si registrano in vari Paesi per la difficile situazione economica in atto, da più parti imputata, secondo una narrazione influenzata dalla Russia, alla nostra doverosa adozione di sanzioni nei confronti di Mosca.
Quanto alle posizioni che dovrà assumere il futuro governo italiano, confido che si manterranno in sostanziale continuità con quelle assunte dal governo Draghi.
La Nato nell’Indo-Pacifico
TADF: Quali sono le prospettive della Nato nell’Indo-Pacifico?
FL: La posizione italiana, che sostengo, valuta che, a fronte delle sfide geo-politiche in atto, sia impossibile per l’Alleanza non adottare un approccio a 360 gradi, per il quale l’Italia si è con successo battuta in occasione del recente vertice Nato di Madrid del 29-30 giugno 2022.
Approccio globale che ha trovato concreta espressione con la partecipazione, per la prima volta ad un summit alleato, di quattro grandi democrazie e nostri partner dell’area dell’Indo-Pacifico: Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda.
Sfide globali, quali quella del contrasto agli ostacoli frapposti da Pechino alla libertà di navigazione nel Mar di Cina meridionale, richiedono infatti soluzioni globali.
La posta in gioco su Taiwan
TADF: Si rischia realmente uno scontro diretto con Pechino, in caso di invasione di Taiwan?
FL: A nessuno sfugge come il livello del confronto dialettico tra Washington e Pechino sia considerevolmente cresciuto, da ultimo in occasione della visita nell’isola all’inizio dell’agosto 2022 della Speaker Nancy Pelosi.
Tuttavia, è possibile ritenere che ambedue le parti siano consapevoli dei costi tremendi che un’ulteriore escalation potrebbe comportare. È in tale chiave che ritengo vada collocata la video-conferenza tra il presidente Biden e il suo omologo cinese, svoltasi proprio alla vigilia della visita.
Credo essa abbia fornito ai due interlocutori un’occasione per fare stato alla controparte delle rispettive linee rosse: per Pechino, l’inaccettabilità di un abbandono da parte statunitense della “One China Policy” di epoca nixoniana, per Washington quella di un mutamento con la forza o col ricatto dello status quo relativamente allo status dell’isola.
La posta in gioco per l’Occidente e per gli Stati Uniti in primis è particolarmente alta. Bloomberg stima che quest’anno nello Stretto di Taiwan siano transitate il 50 per cento delle navi container e l’80 per cento delle maggiori navi per tonnellaggio del mondo. Se lo Stretto cessasse di essere un passaggio libero le conseguenze per le nostre democrazie, le nostre catene del valore e il commercio internazionale sarebbero catastrofiche.
Inoltre, in caso di un attacco all’isola da parte di Pechino coronato da successo, passerebbe di fatto sotto il controllo di Pechino un’industria strategica come quella dei microchip (il 66 per cento della produzione globale di chip è taiwanese e il 54 per cento realizzato dalla taiwanese TSMC), con conseguenze dirompenti per le produzioni industriali occidentali a più alto valore aggiunto tecnologico.
I ricatti di Erdogan
TADF: Erdogan ha definitivamente abbandonato l’intenzione di porre un veto all’adesione di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica?
FL: Sino alle elezioni presidenziali turche del giugno 2023, è verosimile ritenere che Erdogan attui quella che mi sentirei di chiamare una politica di “stop and go” da parte turca con riferimento all’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica.
Un “satisfecit” definitivo e dunque un via libera irreversibile, sin d’ora, all’adesione di Svezia e Finlandia, priverebbe Erdogan della possibilità di continuare a esercitare sugli alleati pressioni per ottenere contropartite sui dossier che egli riterrà di volta in volta prioritari per la Turchia e, ancor più, ai fini della sua rielezione.
Facendo periodicamente balenare lo spauracchio di un rinnovato veto turco all’inclusione nell’Alleanza dei due Paesi nordici, egli confida con ogni probabilità di riuscire a ottenere da parte Usa una maggiore attenzione verso le tesi turche.
Ad esempio, sul diritto allo sfruttamento dei giacimenti energetici in aree contese nel Mediterraneo orientale, o sulle ricorrenti operazioni anti-PKK e anti-YPG condotte dalle forze armate turche nel nord della Siria e nel Kurdistan iracheno.
Il ruolo dell’Italia
TADF: L’Italia potrà tornare ad assumere influenza geopolitica nel Mediterraneo? Se sì, come?
FL: Ritengo che l’Italia già oggi eserciti una non trascurabile influenza geopolitica nello scacchiere per una pluralità di motivi: tra questi i buoni rapporti che da sempre intratteniamo con l’alleato statunitense e con attori regionali importanti, a cominciare da Grecia, Turchia ed Algeria.
Tuttavia, si può fare di più sotto vari profili. Il primo è quello del miglioramento della nostra capacità di ricevere merci e distribuirle nel continente europeo. In questo momento le navi container in arrivo dall’Asia preferiscono fare un lungo giro e scaricare nei porti di Rotterdam, Anversa o Amburgo, perché più organizzati e meglio collegati con l’entroterra rispetto a quelli italiani.
Il secondo è quello della sicurezza della navigazione del Canale di Sicilia. Affacciandosi su di esso l’Italia è anche responsabile che il traffico marittimo al suo interno si svolga in sicurezza. In particolare, dallo Stretto passano anche i cavi sottomarini che collegano l’Europa a internet. Qualora danneggiati da una potenza ostile, la connessione di mezza Europa sarebbe compromessa.
La Libia
Il terzo profilo dovrebbe essere quello di un’accentuazione del nostro ruolo come Paese imprescindibile per la stabilizzazione della Libia e il contenimento delle contrapposte aspirazioni di Russia e Turchia a esercitare il ruolo di “potenze garanti”.
Ciò potrebbe sfociare in un condominio di fatto che tenderebbe ad escludere l’Italia dalla Libia nonostante gli enormi interessi, non solo strategici, per il nostro Paese e il ruolo di primo piano che, fortunatamente, sta ancora esercitando l’ENI.