Europa col fiato sospeso: perché Bruxelles prega per una vittoria di Kamala

Un successo di Trump la costringerebbe a guardarsi allo specchio e a fare i conti con ipocrisie e contraddizioni, mettendo in discussione la sua “comfort zone” da scroccona

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Le elezioni Usa sono ormai alle porte, e l’Europa attende l’esito con il fiato sospeso. Il risultato non sarà determinante solo per gli Stati Uniti, ma avrà un impatto significativo anche sul Vecchio Continente, toccando temi cruciali come sicurezza, relazioni commerciali e cooperazione transatlantica. La maggioranza nelle istituzioni europee e nell’opinione pubblica spera in una vittoria di Kamala Harris, considerata garante della stabilità e della continuità nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico.

Il sondaggio

Secondo un sondaggio YouGov condotto in sette Paesi europei (Regno Unito, Francia, Italia, Germania, Spagna, Svezia e Danimarca), Harris è largamente preferita a Trump. Solo in Italia Harris non raggiunge la maggioranza assoluta, pur rimanendo la candidata preferita. Il supporto è particolarmente elevato nei paesi nordici, con l’81 per cento degli intervistati danesi a favore di Harris. Le preferenze si concentrano tra gli elettori centristi e di sinistra, anche se la candidata democratica raccoglie consensi sorprendenti anche nell’elettorato di estrema destra, come i Democratici Svedesi e parte dei sostenitori di Marine Le Pen in Francia.

Questa preferenza non riflette necessariamente un sostegno incondizionato a Harris (che, in fondo, nessuno in Europa conosce bene), quanto piuttosto i timori europei per un nuovo mandato Trump. Harris è vista come una figura di continuità, portatrice di un approccio simile a quello di Biden nel coordinare la Nato e, attraverso di essa, gli alleati Ue, per mantenere una linea di pieno supporto a Kyiv nel conflitto contro la Russia.

A Bruxelles si confida che una presidenza Harris favorisca una cooperazione costruttiva con l’Ue, soprattutto su regolamentazioni di IA, tecnologia e clima. Tuttavia, l’effettiva capacità di Harris di agire su dossier delicati come gli aiuti all’Ucraina e i rapporti commerciali dipenderà dalla composizione del nuovo Congresso Usa (oltre che per presidente e vicepresidente, si vota anche per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di 34 seggi del Senato su 100).

Trump, rischio o opportunità?

La preferenza europea per Harris si spiega col fatto che Trump è percepito come un elemento destabilizzante per gli equilibri attuali. Conosciuto per la sua avversione per gli alleati Nato “scrocconi” e per il “parassitismo” europeo, il suo approccio potrebbe comportare scontri più aperti. Gli alleati di Trump, come Elon Musk e altri magnati della Silicon Valley, potrebbero spingerlo a ostacolare aggressivamente le regolamentazioni tecnologiche dell’Ue, mentre lo stesso ex presidente ha ipotizzato nuovi dazi commerciali contro l’Europa. In politica estera, Trump ha dichiarato di voler concludere rapidamente la guerra in Ucraina, probabilmente con un compromesso che cristallizzi la situazione attuale.

Secondo alcuni retroscena, Bruxelles sarebbe pronta a reagire in modo coordinato e determinato a un nuovo mandato di Trump. Dopo i contrasti commerciali del 2018, l’Ue ha iniziato a progettare strategie difensive in vista di una possibile escalation dei dazi, pensando a misure che possano costringere gli Stati Uniti a sedersi al tavolo delle trattative.

Anche i singoli Stati membri stanno studiando le loro contromisure: la Francia ha già attivato una task force presso il Ministero degli esteri, mentre Parigi sottolinea l’importanza di una maggiore autonomia europea nelle politiche di difesa. Hanno fatto un certo rumore le affermazioni di Benjamin Haddad, ministro delegato agli affari europei del governo Barnier, che ha affermato: “Non possiamo lasciare la sicurezza dell’Europa nelle mani degli elettori del Wisconsin ogni 4 anni” e “Usciamo dalla negazione collettiva. Gli europei devono prendere in mano il proprio destino, indipendentemente da chi sarà eletto presidente”.

In un momento di grande debolezza politica ed economica della Germania, che ha di poco sfiorato la recessione tecnica ed è retta da una coalizione di governo in bilico, la Francia cerca di porsi alla guida di un fronte comune Ue perché teme che Trump possa sfruttare le divisioni tra Stati membri in caso di guerra commerciale, una tattica simile a quella tentata (peraltro senza molto successo) dal Regno Unito durante la Brexit per dividere il fronte europeo.

Il rischio di fratture interne all’Ue

Tuttavia, questi retroscena non tengono conto di due fattori molto importanti. Il primo è la grande leva che gli Stati Uniti hanno nei confronti dell’Europa, di cui, di fatto, garantiscono la sicurezza, in primis in chiave anti russa. Il secondo è che l’Unione europea e i suoi Stati membri non sembrano nelle condizioni di reggere lo scontro.

Il settore automobilistico, comparto industriale essenziale del Vecchio Continente, in particolare, è in grave crisi: con i dazi fino al 20 per cento sulle auto europee minacciati da Trump, la Germania e altri paesi produttori come la Spagna e la Polonia subirebbero un colpo durissimo. Questa pressione economica arriverebbe in un momento delicato per l’industria europea dell’auto, già scossa da annunci di ristrutturazioni e licenziamenti massicci da parte di Volkswagen e Audi.

Nell’ambito della difesa, la preoccupazione principale è che Trump trasformi la Nato in un’alleanza basata più su rapporti bilaterali ispirati al principio di condizionalità che sulla solidarietà collettiva, costringendo ogni Paese europeo a rafforzare i propri legami commerciali con gli Stati Uniti per assicurarsi la protezione. Questa prospettiva suscita allarme in Paesi come la Germania, che da decenni ha delegato parte della propria difesa agli Usa, approfittando, allo stesso tempo, di un considerevole surplus commerciale nei confronti di Washington.

Trump ha accennato a un piano per risolvere rapidamente il conflitto ucraino, senza mai rivelarne i dettagli. La sua strategia potrebbe implicare l’uso degli aiuti militari come leva negoziale, aumentando o riducendo il sostegno per imporre concessioni a Mosca o Kyiv, ed il congelamento della situazione attuale sul terreno, con un sacrificio territoriale a danno dell’Ucraina. Soprattutto, l’attuazione del piano, che potrebbe prevedere l’istituzione e sorveglianza di una “zona demilitarizzata”, ed i relativi costi, sarebbero affidati in gran parte agli alleati europei.

L’impatto di una vittoria di Trump non si fermerebbe alla politica estera. Un secondo mandato Trump potrebbe aumentare la divaricazione tra la maggioranza Ursula che governa a Bruxelles, e l’orientamento di molti governi di Stati membri Ue, che già si appoggiano a partiti di destra per mantenere la maggioranza, come dimostrano i casi di Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Italia, Paesi Bassi e Slovacchia. Questi partiti sono accomunati, con diverse gradazioni, da una linea euro-critica se non euroscettica, e una vittoria di Trump potrebbe amplificare queste tendenze.

La sfida che l’Europa non vuole affrontare

In fondo, l’Europa spera in una vittoria di Harris perché un successo di Trump la costringerebbe a guardarsi allo specchio e a fare i conti con le proprie ipocrisie e contraddizioni. Sotto la rassicurante ombra americana, l’Ue, in particolare, ha potuto portare avanti una narrativa di autonomia e coesione che, in realtà, poggia su una forte dipendenza dagli Stati Uniti in materia di difesa e sicurezza.

Una presidenza Trump metterebbe in discussione questa zona di comfort, imponendo agli Stati europei di affrontare questioni spinose come il loro impegno nella Nato, la reale solidarietà tra Stati membri Ue, e la coerenza delle politiche industriali e commerciali di Bruxelles. Con Trump alla Casa Bianca, gli Stati europei non potrebbero contare su un partner di maggioranza sempre accomodante, e sarebbero chiamati a rispondere in modo più chiaro e incisivo alle sfide globali. Forse è proprio questo il motivo per cui il Vecchio Continente, neppure troppo nascostamente, prega per una vittoria di Harris.

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