“Tanto tuonò, che piovve!”, pare abbia detto Socrate. Ieri alle ore 19,59 l’Ansa batteva la notizia che il presidente Joe Biden aveva annunciato su X il suo ritiro dalla competizione per la Casa Bianca del prossimo novembre. Laconico il Washington Post – da sempre favorevole ad un passo indietro di Sleepy Joe – ribatte la notizia intitolandola “Biden steps aside” (si fa da parte).
Quanto la decisione sia stata sofferta è facilmente intuibile se si pensa che solo alle 16,44 la redazione Ansa di New York riportava l’ultimo bollettino di guerra di Biden: “Questa è l’elezione più importante e io la vincerò”. Cosa sia accaduto in quelle quattro ore non è dato sapere e, forse non si saprà, veramente, mai.
Il tempismo
Da quasi un mese il pressing di molti esponenti del Partito Democratico sul vecchio presidente era crescente, ma la rapidità degli eventi è sorprendente. Neppure la moglie Jill, finora il vero muro difensivo della Casa Bianca, è riuscita a resistere a tutto questo abbandono.
Se non è dato di sapere quali note siano state suonate per convincere il presidente a farsi da parte, certo è che il momento non poteva essere migliore: dopo la convention repubblicana, evitando che il presidente ed eventuali candidati “suggeriti” finissero sotto il fuoco incrociato dei supporter di Trump, mai come ora entusiasti e “famelici”, soprattutto dopo il “miracolo” di Butler (Pennsylvania), ma abbastanza lontano dalla kermesse democratica lontana oltre 30 giorni.
Perplessità sulla Harris
Se nel primo istante Biden aveva dichiarato di non voler dare un supporto diretto a nessuno, lasciando libero il partito di scegliere chi volesse nella convention di Chicago della seconda metà di agosto, pochi attimi dopo ecco il suo sostegno alla sua vice Kamala Harris. Come evidenzia il WP il fatto che un “candidato si ritiri dopo aver superato per lo più incontrastato le primarie del partito per diventare il presunto candidato – è senza precedenti nell’era moderna” e lascia lacerazioni visibili nel campo democratico.
Nancy Pelosi, anima nera ed architetto delle strategie dell’Asinello, si è affrettata a dire che il posto deputato per scegliere un nuovo candidato sarà la convention. Se questa osservazione è ovvia ed incontestabile su di un piano formale, appare un modo per “scaricare” la vice-president. A favore di chi?
Presto a dirlo! Ciò che risulta certo è che oltre a Biden, anche i Clinton (Bill e Hillary), che controllano una fetta rilevante del partito, hanno già espresso il loro endorsment alla Harris. Non così Obama che – ad ora – tace sulle sue intenzioni, forse volendo spendersi all’ultimo minuto per un “suo” candidato nella “sua” città, nella sua “sweet home”.
Ma quali carte sono rimaste nel mazzo Dem? Oltre alla Harris, che – pur essendo il candidato più logico – non entusiasma i cuori, sia per i dubbi sulla sua capacità di gestire la campagna e di prepararsi ad essa da protagonista, sia perché ha gestito in modo disastroso l’emergenza immigrazione – Biden per evitare questa spinosa questione non risolvibile, scaricò questo punto dell’agenda alla sua vice che aveva la colpa (o il merito) di essere figli di immigrati. E poi da liberal californiana sarebbe facilmente attaccabile.
Le alternative
Certo, nella faretra democratica vi sono non pochi dardi di peso, ma nessuno di caratura veramente nazionale. Il governatore della California Gavin Newson (lo stato più popoloso) è politico consumato, ma proviene da uno stato che non esprime presidenti da anni (in fondo l’ultimo fu Reagan, che della California fu governatore): troppo “de sinistra” e la partita si vince al centro… politico e geografico dell’America.
Meglio piazzata appare Gretchen Whitmer perché guida con successo il Michigan, uno dei tre stati essenziali per il Partito dell’asinello, insieme al confinante Wisconsin e alla Pennsylvania. Whitmer ha avuto successo, l’economia va bene, e le case automobilistiche hanno appena firmato un rinnovo del contratto molto vantaggioso per gli operai. Inoltre, come donna, potrebbe essere buona antagonista contro le politiche anti-abortiste.
Nel pacchetto vi è anche il governatore della Pennsylvania Shapiro, ma gli americani sono pronti ad un presidente ebreo, nonostante il peso di quella comunità? Per gioco si potrebbero elencare anche il governatore dell’Illinois Pritzker, quello del Winsconsin Evans ed il giovane (46 anni) Beshear governatore del Kentucky, stato solidamente repubblicano alle presidenziali. Tutti nomi validi, ma non conosciuti a livello nazionale.
Si potrebbe dire che non pochi inquilini della Casa Bianca, da Clinton a Obama, per restare in campo democratico, erano sconosciuti ai più prima di candidarsi alle primarie. Ma questo è il punto. In politica, come nella comicità, a governare sono i tempi. I due presidenti sopra citati logorarono le proprie mani in infiniti segni di saluti per anni. Chiunque salga ora sul treno in corsa sarà in grado di farsi conoscere ed apprezzare e, soprattutto, a preparare un programma e a fare propri i dossier? Difficile.
Poi si risponda a questa domanda: perché persone capaci e – potenzialmente – preparate dovrebbero rischiare di bruciarsi a vita, contro un candidato, spregevole se si vuole, ma che adesso tutti i sondaggi danno in vantaggio incolmabile? Va bene l’amore per il partito e per il Paese, ma in politica nessuno si fa martire.
Certo resta il sogno “Michelle”, ma si è sicuri che voglia rischiare – nonostante la macchina organizzativa che potrebbe mettergli a disposizione il marito – una figuraccia (conoscerà veramente i dossier, come a sinistra si è sicuri?). Una regola senza tempo dice che, in politica, se non si è certi di poter ereditare gli amici del proprio mentore, sicuramente se ne ereditano i nemici, ed Obama non ne aveva pochi anche dentro il Partito Democratico. Plagiando un film, molto liberal: “good night (Joe) and good luck”.