Più perdura la tragica guerra di Gaza (tragica come tutte le guerre), più gli israeliani diventano colpevoli di ogni cosa agli occhi della cultura woke – che purtroppo influenza con la sua ideologia non solo gli attivisti, che non perdono occasione di lanciare le accuse più infamanti, soprattutto quella di nazismo, ai discendenti delle vittime dell’Olocausto, ma anche molti di coloro che hanno responsabilità pubbliche.
Le accuse a Israele
Questi ultimi, facendo leva su un concetto astratto di “proporzione” (mai usato per valutare gli eventi bellici, sempre drammatici, ma da giudicare in relazione alle concrete responsabilità delle parti in causa) o giungono addirittura ad accusare Israele di “genocidio” (accusa altrettanto infamante di quella di nazismo), o iniziano ad inserirsi in tutta una serie di distinguo al termine della quale c’è come sempre la condanna di Israele e la giustificazione (esplicita o implicita) dei suoi nemici.
In tutte le guerre, anche se entrambe le parti finiscono per compiere atti e per adottare strategie moralmente discutibili, quasi sempre accade che, alla luce dei valori in cui si crede, una parte ha fondamentalmente torto e l’altra fondamentalmente ragione, e che a volte una delle parti è addirittura talmente votata alla distruzione dell’avversario (scopo di Hamas è il “ripulire” la Palestina dagli ebrei, e questo è il vero genocidio, se le parole hanno un senso), che solo il suo disarmo, la sua resa può portare ad una pace duratura.
Doppio standard
Posto questo, alcune assurdità sconcertanti colpiscono, nel modo in cui molti politici e alcuni giudici (nazionali o internazionali) si pongono di fronte al, e valutano il conflitto tra Israele e Hamas.
Più volte su Atlantico sono stati illustrati i paradossi di questa concezione asimmetrica della guerra: nei confronti di Hamas vengono giustificati e frettolosamente dimenticati i crimini più orribili effettuati intenzionalmente sui civili (questi sì pari e forse peggiori di quelli nazisti), le torture degli ostaggi, ma anche la violazione palese del diritto di guerra che viene effettuata con la confusione delle strutture civili con quelle militari, creata nascondendo basi e arsenali al riparo di ospedali e/o strutture civili, comprese quelle delle spesso compiacenti organizzazioni internazionali e non governative.
Ad Israele vengono invece imputati i crimini peggiori a fronte di quelle che sono operazioni militari che rispettano il diritto di guerra, e la responsabilità delle vittime civili viene attribuita non a chi si fa sostanzialmente scudo di esse ma a chi combatte coloro che vilmente si nascondono al riparo di quelle vittime, le quali prolungano la scia di morti (soprattutto bambini) che già in tempo di pace veniva creata dai miliziani di Hamas, ad esempio per la costruzioni dei tunnel destinati ad ospitare installazioni militari.
Nessun freno di fatto viene posto da molti politici e/o da alcuni giudici occidentali alle azioni di Hamas: ci si limita ad una generica condanna che finisce per bilanciarsi con le presunte ragioni alla liberazione di un territorio, la Striscia di Gaza, già da anni lasciato libero dagli israeliani (da decenni favorevoli alla soluzione dei due stati), con i risultati che si sono visti.
Ma non voglio ripetere ciò che altri hanno detto meglio di me. Intendo piuttosto cercare di comprendere come questi ragionamenti, che stravolgono tutti i principi con i quali la civiltà occidentale ha saputo gestire la pace ed è riuscita, sia pure con molte difficoltà, a limitare la guerra nei modi e nei fini (che non sono quelli barbari di Hamas), possano avere in parte presa nella nostra cultura e nelle nostre élites di potere.
Ribaltamento dei valori
A questo discorso proverò ad aggiungere un significativo esempio storico che ci ricordi dove ha condotto in passato una mentalità analoga a questa. Il ragionamento in due fasi che sta alla base di questa concezione della guerra e della pace è in parte contorto (se non lo fosse non sarebbe capace di stravolgere così tanto la realtà), ma esso rispecchia il carattere “nichilista” (cioè essenzialmente negativo) della cultura woke, portata a cercare il mondo perfetto solo attraverso critiche e condanne.
Spero di riuscire a spiegarmi. Primo passo: come in tutte le guerre siamo di fronte ad una parte più o meno “affine” e ad una parte “estranea”: per noi, persone di cultura occidentale, la parte di cui si condividono i valori è indubbiamente Israele, che rientra a tutti gli effetti nella civiltà occidentale, mentre la parte estranea a questi valori è Hamas, che si ispira a ideali e principi diversi da quelli della nostra civiltà.
Secondo passo (e qui viene il difficile, qui si spalanca il paradosso): poiché tutti coloro che sono influenzati dalla cultura woke detestano i propri valori, secondo i principi dell’oicofobia (odio per la propria civiltà e la propria cultura) descritta da Roger Scruton (1944-2020), essi rivolgono le loro critiche e le loro condanne non verso le organizzazioni non occidentali, ma soprattutto verso gli stati culturalmente “affini”, di cui vengono distorti gli obiettivi, falsificati i comportamenti, spesso con ridicoli processi alle intenzioni.
Con analogo rovesciamento della realtà, nei confronti dei gruppi non occidentali, anche di quelli più barbari come Hamas, si cerca di giustificare tutto, quasi di perdonare tutto, passando sopra a crimini che, se compiuti da uno stato occidentale avrebbero fatto stracciare le vesti a coloro che li ignorano o cercano di comprenderli.
Così la potenza culturalmente affine diventa oggetto solo di condanna (e quindi diventa “nemica”) mentre quella che si rifà a principi non occidentali (spesso barbari e incivili) diventa oggetto di comprensione (cioè diventa “amica”): questo rovesciamento dei principali concetti della politica è reso possibile dalla visione in negativo (una sorta di antimateria culturale) propria della cultura woke.
Alla base di tutto questo sta, come sempre in tutte le posizioni ideologiche, una concezione di per sé nobile, ma resa astratta e portata all’eccesso sino stravolgerne il senso: l’aspirazione all’accordo a tutti costi con le realtà di cultura diversa, cui si accompagna l’incapacità di condannare il male (anche il male più atroce) se commesso dall’altro, dal culturalmente “estraneo” e di conseguenza l’incapacità di affermare le proprie ragioni, cosa ancora più facile ovviamente quando chi giudica non è toccato personalmente e si limita a condannare in senso assoluto e senza motivazioni logiche l’azione dei Paesi occidentali.
Un precedente storico
Questa strana miscela di rapporti rovesciati, di valori ribaltati, globalmente subordinata ad un principio nobile ma astratto, quello dell’accordo a tutti costi con “l’altro”, pur essendo oggi tipica della cultura woke non è una novità assoluta, e un esempio tratto dai drammatici anni ’30 e ’40 dello scorso secolo può essere di grande aiuto per comprendere quanto questa mentalità nutrita di buone intenzioni possa, come dice il proverbio, preparare la strada per l’inferno.
Mi riferisco alle concezioni fatte proprie e alle decisioni prese da gran parte degli esponenti del Partito socialista francese, un partito ispirato ai migliori valori liberali e democratici. In questo mi rifaccio alle descrizione profonda e dettagliata contenuta nel libro del 2003 “Terrore e liberalismo” del politologo americano Paul Berman. Gran parte dei socialisti francesi (anche se non tutti, come vedremo) inorriditi di fronte ai massacri della Prima Guerra Mondiale erano fermamente decisi a sostenere la pace a tutti i costi e ad evitare in qualunque modo un nuovo conflitto con il tradizionale nemico tedesco.
In questa posizione nobile si inserì una mentalità simile a quella della cultura woke, che portava con sé l’esigenza da un lato di comprendere a tutti costi i problemi dei tedeschi e dall’altro di condannare tutte le posizioni del proprio Paese capaci di creare conflitto. Di fronte all’ascesa del nazionalsocialismo hitleriano in Germania, ovviamente i socialisti non approvarono, ma cercarono di comprendere e quasi sempre giunsero alla conclusione che i tedeschi non avevano tutti i torti.
Ritennero ad esempio che il Trattato di Versailles avesse privato la Germania di territori abitati da tedeschi, che erano sottoposti a vessazioni in quei territori e che quindi Adolf Hitler non avesse tutti i torti nel volere riassorbire gli stessi nel reich. Lo stesso trattato aveva imposto riparazioni di guerra inique che avevano fatto collassare l’economia tedesca, che era dominata da avidi speculatori, molti dei quali erano ebrei, per cui gli stessi socialisti francesi affermarono che anche nella persecuzione sociale e poi politica degli israeliti i nazisti “non avevano tutti i torti”.
Così la voglia di accordo a tutti i costi con il potenziale avversario, l’esigenza di comprendere e giustificare tutto portò pian piano quei sostenitori del liberalismo e della ragione ad accettare, o almeno a giustificare alcune delle idee più barbare della storia moderna. Non solo; questa mentalità portò quegli uomini ad attaccare e condannare senza appello quei compagni di partito che erano favorevoli alla mano dura contro Hitler, che vennero fatti oggetto di campagne denigratorie anche personali come accadde ad esempio al leader socialista Leon Blum (1872-1950) ex capo del governo, accusato di essere radicalmente contrario al nazionalsocialismo a causa delle sue origini ebraiche.
Dopo la sconfitta della Francia nella “guerra lampo” del maggio-giugno del 1940, buona parte di questi socialisti collaborarono, forse con l’intento – a quanto affermarono – di mitigarne gli aspetti negativi, con la Repubblica di Vichy guidata dal maresciallo Philippe Petain (1856-1951) e alcuni di loro si spinsero più oltre, in una discesa ormai senza freni, fino a condividere i programmi socialismo hitleriano ferocemente antiebraico, estesi a tutta l’Europa continentale.
Leon Blum invece fu deportato nel lager di Dachau, da dove per sua fortuna riuscì a tornare vivo. Mancò a questi socialisti (menti illuminate e animate dalle migliori intenzioni) la capacità di chiamare male il male e quella di difendere le proprie buone ragioni, anche a costo di scontrarsi con l’avversario, cioè con chi quelle ragioni non condivide e calpesta.
Cessate-il-fuoco controproducente
La cessazione dei combattimenti è sempre una cosa importante, ma è molto pericoloso e quasi sempre controproducente ai fini di una pace duratura fare compromessi con regimi e organizzazioni (come fu la Germania nazionalsocialista e come è oggi Hamas) votati principalmente alla distruzione dell’avversario che offrono la tregua solo al fine di colpire ancora più selvaggiamente in seguito.
Posizioni troppo staccate dalla realtà, basate sul già citato concetto astratto di proporzione che non dà conto delle reali responsabilità di Hamas per le vittime civili e dei tentativi degli israeliani di ridurle al minimo, quale ad esempio quella del presidente americano Joe Biden, alla quale i nostri politici si sono troppo velocemente e supinamente adeguati, rischiano di essere controproducenti.
Una qualche legittimazione dei terroristi sarebbe una grave ferita per la civiltà occidentale, e sarebbe solo la premessa di una nuova guerra, mentre la strada di una possibile pace duratura tra arabi e israeliani è quella segnata dagli Accordi di Abramo del 2020 (uno dei meriti epocali dell’amministrazione Trump), che per fortuna non sono stati messi sostanzialmente in crisi dalla attuale guerra.
Ma per proseguire sulla loro strada servono valori forti, tra cui soprattutto, come anche l’esempio dei socialisti francesi ci insegna, la capacità riuscire a fermare il male di chi ha compiuto la strage del 7 ottobre e rivolgersi invece alle parti più disposte al dialogo dei Paesi arabi. La battaglia sarà ancora una volta anche una battaglia culturale e anche sul piano dei valori che i terroristi dovranno essere sconfitti.