Esattamente cinquant’anni fa, nel 1973, Henry Kissinger visse il suo anno più impegnativo nella politica estera. L’allora segretario di Stato statunitense, ex profugo ebreo naturalizzato americano che passerà alla storia come uno dei personaggi più influenti sulla politica internazionale, oltre che uno dei più controversi, aveva cinquant’anni ed era al culmine della sua straordinaria esperienza di vita.
Influente consigliere per la politica estera dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, caratterizzò la sua missione politica con l’autorevolezza ed il coraggio di portare avanti le proprie idee con fermezza e coerenza, doti che gli fecero ottenere il Premio Nobel per la Pace proprio nel 1973.
Il terribile 1973
In quell’anno anno, infuriavano ancora le guerre in Vietnam, Cambogia, Corea, per citare solo le principali. Ma sempre nel ’73, scoppiò anche la Guerra del Kippur, vi furono colpi di stato in Afghanistan, Pakistan, Ruanda, quello nel Cile di Allende, che portò al governo il generale Pinochet, mentre in Argentina rientrava il generale Peron dopo l’esilio e in Spagna il Caudillo Francisco Franco incaricava il suo fedelissimo, generale Carrero Blanco (che verrà ucciso pochi mesi dopo dai guerriglieri baschi dell’ETA), di formare il governo. Giusto per non tralasciare altri focolai di guerra e rivolta, ricordiamo che in Irlanda del Nord scoppiava una bomba dei terroristi dell’IRA ogni pochi giorni, mentre nell’isola di Cipro gli attentati terroristici del movimento che rivendicava l’annessione alla Grecia.
Fatta questa breve premessa, che ci permette d’inquadrare quei primi anni Settanta come tempi certamente non più pacifici di quelli odierni (ma la gente ha memoria corta…) già appare degno di nota che qualcuno così impegnato in prima persona nella politica estera di una grande nazione, abbia potuto vedersi assegnare il Nobel per la Pace. Lo si dica senza retro-pensieri di parte, assegnando, comunque, a Kissinger la massima parte del merito per il successo della Conferenza di pace per il Vietnam, sancita a Parigi il 27 gennaio.
Altro indiscutibile successo della mediazione di Kissinger fu quando, il 16 giugno di quell’anno, riuscì a fare incontrare a Washington il presidente dell’Urss Breznev con il presidente Nixon, per non parlare di quel risultato diplomatico, che tutti gli riconobbero, di aver propugnato l’armistizio israelo-egiziano, che pose fine alla Guerra del Kippur l’11 novembre.
Ho voluto citare fatti certi e date precise per sottolineare, nell’opera di Henry Kissinger, quei risultati concreti che, a mezzo secolo di distanza, fatti i possibili accostamenti con i fatti bellici di oggi, sembrano ormai impossibili, tantomeno per opera di una diplomazia di grande rilievo, basata sull’indiscusso credito di cui goda un grande mediatore internazionale.
Oggi, semmai, assistiamo alla corsa a guadagnarsi una fettina di consenso internazionale da parte di improbabili e poco credibili mediatori che si propongono in quel ruolo per coprire le proprie magagne e con risultati nemmeno lontanamente paragonabili a quelli che ottenne Heinz Kissinger, come si chiamava alla nascita. La diplomazia d’alto livello è un’arte ed un privilegio per i pochi che ne siano all’altezza per cultura e talento personali, prestigio e coerenza che fanno la differenza tra gli statisti e i furbacchioni opportunisti di cui abbiamo ampio campionario.
L’equilibrio di potere
Nel libro di Alistair Horne, “Kissinger 1973: the crucial year” (Simon & Shuster, New York, 2009), si legge, alla pagina 66: “La realpolitik di Kissinger, in applicazione dei principi di Von Metternich, vide nell’apertura alla Cina il vero punto d’equilibrio globale, un equilibrio di potere”. Questo è un punto fondamentale, attualissimo e cruciale ancora oggi. Aver applicato tale intuizione alla diplomazia di oltre cinquant’anni fa è sintomo di una finezza di ragionamento e di una visione geopolitica che non potremo che rimpiangere con la scomparsa di Kissinger, quali che possano essere le valutazioni di parte per la politica estera americana, della quale fu un protagonista assoluto.
L’equilibrio di potere internazionale è l’unica strada percorribile per controbilanciare quelle perturbazioni che il mondo moderno soffre a causa di eccessivi impulsi che rischiano di tirare da una contesa parte la coperta sempre più stretta della sicurezza dei popoli. Estendere il teatro della diplomazia internazionale ad altri competitors, che nel 1973 era difficile individuare oltre alle due superpotenze, fu l’audace intuizione di uno statista che seppe farsi ascoltare dal mondo, oltretutto considerando, e non è poco, che riuscì a sopravvivere politicamente ai fatti e misfatti dei presidenti di cui fu uno dei massimi collaboratori.
I piccoli passi
Non soltanto potente segretario di Stato, ma ultimo dei veri consiglieri, intendendo col termine “consigliere” chi, vicinissimo ad un potente della Terra, non manifesti sudditanza e opportunismo personale, ma sappia, appunto, consigliare secondo le proprie capacità e conoscenze.
Kissinger mise in pratica la celeberrima “teoria dei piccoli passi” della quale ancora parlò, a 93 anni, in un’intervista di Flaminia Bussotti su Il Messaggero del 17 agosto 2015, a proposito dell’allora nascente crisi russo-ucraina:
Penso che il rischio di questo scenario sia reale ma è meglio avere cautela a sbilanciarsi, non voglio pronunciarmi per il rischio di gettare olio al fuoco. È necessaria una politica dei piccoli passi per non complicare ancora di più le cose. Sarebbe un errore fatale tirare l’Ucraina da una parte e dall’altra, considerarla come un avamposto dei rispettivi schieramenti. Il ruolo dell’Ucraina deve essere invece quello di ponte fra Europa e Russia.
Parole profetiche. Con Henry Kissinger si chiude un epoca fondamentale della diplomazia; quella che ferma i conflitti, che pacifica, più di quella che delle guerre si limiti a tapparne alla meglio i crateri.