I militanti di Hamas non hanno risparmiato neanche i bambini. Nei giorni scorsi le notizie dei piccoli israeliani, persino neonati, rapiti e uccisi a decine, alcuni sgozzati, ci hanno riempito di orrore. Apparteniamo a una civiltà in cui non si ammette di poter infierire così su dei bambini e stentiamo a credere che ci sia un mondo in cui l’infanzia non ha diritti né tutele, in cui si possono considerare nemici da abbattere anche i bambini degli avversari.
I piccoli shahid
Ancora più difficile, inconcepibile, è che si possano sacrificare i propri stessi figli: in guerra, mandati a morire, e in pace, uccisi in nome dell’onore famigliare. Quasi ci siamo dimenticati di quanti bambini invece sono morti in Israele, straziati dalle esplosioni, all’epoca degli attentati dinamitardi suicidi. Chi più di un bambino, un ragazzino poteva passare inosservato i controlli di sicurezza?
Così ai piccoli palestinesi facevano indossare dei giubbotti pieni di esplosivi e li facevano saltare in aria alle fermate degli autobus e sui mezzi di trasporto. Per questo i genitori israeliani non lasciavano viaggiare i figli sugli stessi mezzi, per evitare che morissero tutti in una volta vittime di un attentato, e per questo nel 2002 è iniziata la costruzione di quella barriera anti-terrorismo che mezzo mondo ha condannato chiamandola “muro dell’apartheid”, “muro della vergogna”.
I giovani attentatori palestinesi si chiamavano shahid: martiri, testimoni della fede, combattenti del jihad, la guerra santa per conquistare all’Islam il mondo e sterminare gli infedeli che ostacolano questo mandato divino. “Gli shahid costituiscono la forza fondamentale e vittoriosa del nostro popolo – aveva detto nel 2002 il leader dell’Anp, Yasser Arafat, durante un discorso rivolto a un pubblico di bambini – il bimbo che afferra un sasso, che fronteggia un tank… non è il miglior messaggio per il mondo quando quell’eroe diventa shahid?”.
I filmati mandati in onda all’epoca dalla televisione palestinese mostravano bambini eroi che, allevati nell’odio per Israele, lasciavano mamma, casa e giocattoli per andare a morire e le madri degli shahid in lacrime, ma fiere e felici della decisione dei loro figli. I piccoli palestinesi imparavano anche a scuola, dalle parole dei loro insegnanti e dai libri di testo, nei quali le cartine geografiche non riportano lo Stato di Israele, che il martirio è glorioso, apre la strada del Paradiso.
L’esempio dell’Iran sciita
A dare l’esempio era stato il regime sciita degli ayatollah in Iran. Durante il conflitto con l’Iraq, dal 1980 al 1988, i militari arruolavano bambini e ragazzi, a forza, sequestrandoli per strada, all’uscita dalla scuola, o convincendo i genitori a consegnarli, e ne facevano degli shahid. Li costringevano a camminare sui campi minati e a marciare in prima linea contro il nemico. Si dice che a volte i militari iracheni, sconvolti, abbandonassero le mitragliatrici, incapaci di sparare su dei bambini che avevano l’età dei loro figli.
Il governo aveva acquistato a Taiwan centinaia di migliaia di chiavi di plastica dorata. Le consegnavano agli shahid dicendo loro di appenderle al collo perché, se fossero morti, con quelle chiavi avrebbero aperto la porta del Paradiso. In questo modo li preparavano al sacrificio di sé per la causa suprema della vittoria in nome di Allah.
Ritorna alla mente una frase di Golda Meir, primo ministro di Israele dal 1969 al 1974. “La pace arriverà quando gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi”. Trasformare i propri figli in combattenti, educarli all’odio è una gravissima violazione dei diritti dei bambini. L’estrema perversione è trasformarli in strumenti di guerra, farne carne da macello.
Al martirio anche le donne
È il caso di ricordare che per gli attentati dinamitardi i palestinesi hanno usato anche delle donne. L’ottava a morire, la seconda a lasciare degli orfani, la prima per conto di Hamas, è stata Reem Salah al-Rayashi che nel gennaio del 2004, saltando in aria al valico di Erez, ha ucciso quattro israeliani: due soldati, un poliziotto e un civile addetto alla sicurezza. Aveva 23 anni, apparteneva a una famiglia benestante e laica residente a Gaza, aveva due figli, uno di tre anni e uno di 18 mesi.
Fu fatto circolare un video in cui dichiarava che dall’età di 13 anni sognava di trasformare “il mio corpo in una scheggia mortale contro i sionisti” e di aver sempre desiderato “essere la prima donna a compiere un’operazione di martirio, in cui parti del mio corpo possono volare dappertutto”. Stando a quanto riportato dai servizi segreti israeliani, in realtà la sua è stata una esecuzione.
Reem era stata condannata al suicidio dai famigliari perché aveva avuto un amante, doveva morire per restituire onore alla sua famiglia e a quella del marito. Fu proprio il marito, militante di Hamas, a portarla in auto in prossimità del valico e il suo amante, anch’egli un militante di Hamas, fornì la cintura esplosiva, con ciò forse riscattandosi ed evitando la morte che, a seconda dei casi, i musulmani infliggono anche al seduttore.
Ma, prima e dopo Reem, altre donne invece hanno scelto di diventare shahid. Hanadi Jaradat, 27 anni, nell’ottobre del 2003 ha provocato una strage nel ristorante Maxim di Haifa dove era entrata portando un neonato in un passeggino. I jihadisti la ricordano come la “sposa di Haifa”.
Il cantautore italiano Roberto Vecchioni le ha dedicato una canzone, Marika. “Canta Marika canta – dicono i versi – come sei bella l’ora del destino, ora che stringi la dinamite come un figlio in seno… canta Marika canta siamo i tuoi occhi siamo il tuo sorriso, canta che Dio ti guarda che anche sulla terra c’è il paradiso, stringiti forte il fiore che porti sotto il vestito nero, volano duri petali per ricoprire il mondo intero”. Il “fiore” è la carica di esplosivo con attorno pezzi di metallo per renderla più letale, che uccise 21 israeliani, tra cui tre bambini di 11, 4 e un anno, e ne ferì 60.