Uomini russi abili alle armi sono alla frontiera in lunghe code, ma stavolta non per fare la guerra. Se la voce della coda di 35 chilometri circolata su internet dopo il discorso mattutino di Putin è stata smentita dalle autorità di frontiera finlandesi, è comunque accertato (l’ha dovuto ammettere il portavoce del Cremlino Peskov, parlando di “iniziale reazione isterica”) che il traffico in direzione Helsinki, come anche le insolite file di automobili ai confini di Georgia, Mongolia, Kazakhistan dimostrano lo stato non proprio euforico che caratterizza la Russia richiamata alle armi sia pur “parzialmente” da Putin.
Per non parlare della ressa negli aeroporti e della frenetica ricerca di biglietti aerei da parte, chiaramente, dei coscritti più benestanti. Vi sono poi le manifestazioni in piazza: non sono manifestazioni oceaniche, ma si tenga presente che la legge russa picchia durissimo in caso di manifestazioni non autorizzate, a maggior ragione in un contesto di guerra prima non dichiarata, ora apertamente evocata.
L’attaccamento “occidentale” alla vita
Sono tutti sintomi che indicano una condizione febbrile della società russa, che fino a ora ha assistito alla televisione alle vicende non esaltanti della “operazione speciale” e che oggi rischia di essere coinvolta in una sua parte rilevante.
Proprio perché negli scorsi mesi i putiniani e cripto-putiniani hanno evocato, un po’ a sproposito, il tema della “russofobia”, vorremmo dire in maniera conciliante che proprio questa reazione “non marziale” ci avvicina ai russi, anzi avvicina i russi a noi occidentali con una similarità non prevista nei voluminosi saggi di Aleksandr Dugin.
L’Occidente è quel luogo dell’anima, ancor prima che della geografia, in cui si sviluppa l’individualità e con essa l’attaccamento al corpo fisico (ricordate la sintesi perfetta dello sceicco Bin Laden? “Voi amate la vita, noi amiamo la morte” …).
Nello stesso tempo in quel contesto di civiltà si manifesta l’esorbitanza del potere tecnico: anche in guerra la potenza della macchina tende a sostituire l’arcaico ardore dei combattenti.
Questi russi che accolgono la mobilitazione con scarso entusiasmo sono cresciuti guardando le parate militari trionfalistiche che celebravano il Terzo Impero putiniano (dopo quello zarista e quello sovietico), ma evidentemente non leggono Dugin, non brindano insieme a Medvedev e d’altra parte non partecipano alla riccanza degli oligarchi dell’energia; nel loro piccolo si rivelano oggi “occidentali”, indisponibili a vincere e/o morire per l’allargamento della sfera di influenza del Cremlino.
D’altra parte, chi potrebbe oggi mandare a morire i propri giovani ed essere obbedito? Forse qualche capo islamico invocando la Jihad, forse il segretario del Partito Comunista Cinese potrebbe ordinare a qualche centinaio di milioni (!) di giovani dell’immenso collettivo giallo di partire e combattere, ma il leader di una nazione occidentale faticherebbe oggi a dare una motivazione offensiva per combattere e morire.
L’atomica e la voglia di vivere dei gerarchi
Ma se i giovani russi si rivelano “occidentali” nella loro reticenza ad assecondare la retorica militare ufficiale, anche il grande capo Putin alla fin fine sembra comportarsi come il peggiore esponente di quella civiltà tecnocratica occidentale che a parole dice di combattere.
Di fronte alla disfatta di tutte le sue strategie, infatti, minaccia di ricorrere come extrema ratio al superpotere di una macchina: la macchina del bombardiere atomico, salvo poi fare i conti con l’umanissima voglia di vivere di alti gerarchi e superricchi, che certo non vogliono sacrificare la loro vita privilegiata in nome della Santa Madre Russia in una prevedibile apocalisse nucleare.
Proprio queste incertezze e queste considerazioni aprono lo spiraglio alla possibilità che un giorno si possa andare oltre questo nazionalismo ubriaco di misticismo e possa emergere una Russia con la quale dialogare: la Russia dello scacchista Kasparov per intenderci o del fondatore di Telegram, Pavel Durov.
Una Russia capace di tornare agli ideali di un Sacharov, più che alla frustrata volontà di potenza dei battaglioni brezneviani.
Il sacrificio degli ucraini
Intanto, gli ucraini che pure anelano ad essere parte integrante dell’Occidente euro-atlantico in maniera compatta hanno difeso la loro terra, certo invocando l’aiuto della più grande superpotenza dell’era della tecnica e dei suoi alleati, ma anche versando un pesante contributo di sangue.
Il che significa che, quando si tratta di difendere la libertà della propria terra, l’atteggiamento di fronte all’idea di un estremo sacrificio può cambiare anche nell’Occidente individualista delle macchine e dell’attaccamento alla vita fisica.