Non è un embargo quello approvato dal Consiglio europeo nella notte di ieri, né una sanzione, ma l’annuncio di una politica energetica che dà sei mesi di tempo al venditore, la Russia, per trovare nuovi acquirenti, nel frattempo provocando una nuova impennata dei prezzi del greggio (il Brent viaggia verso i 130 dollari al barile) e una ulteriore spinta inflazionistica. Dunque, è facile intuire chi sono i veri sanzionati da questo finto embargo.
Lo stop alle importazioni di petrolio russo è infatti parziale e a scoppio ritardato. Nell’immediato riguarda solo il greggio che arriva via nave e strada, che però è anche quello che più facilmente Mosca può deviare verso altre destinazioni. Esentati gli oleodotti, come il Druzhba, anche se Germania e Polonia si sono “politicamente” impegnate a cessare le proprie importazioni tramite la ramificazione nord dell’oleodotto entro la fine dell’anno, al contrario di ungheresi, cechi e slovacchi che invece continueranno ad importare dalla ramificazione sud. Il taglio salirebbe così dai 2/3 dell’import Ue al 90 per cento.
Ma come detto, non si tratta di una sanzione, che è per sua natura una misura reversibile, la cui ratio è esercitare pressione su un governo per indurlo a cessare, o ad adottare, un comportamento, ottenendo così la revoca della sanzione e il ripristino della situazione precedente.
Maggiori ricavi per Mosca
L’Ue invece sta facendo qualcosa di diverso: si sta organizzando per non importare più petrolio russo. Legittimo, ma da questa scelta e dalle modalità di attuazione sembrano derivare solo vantaggi per la Russia, che avrà tutto il tempo di trovare nuovi clienti ma potrà beneficiare da subito dell’aumento dei prezzi, incassando ricavi maggiori, mentre in Occidente pagheremo bollette energetiche ancora più care.
“Cosa è meglio per noi, vendere dieci barili di petrolio a 50 dollari, o venderne sette a 80 dollari?”, è la domanda retorica posta dal vicepresidente di Lukoil. Direte: una voce russa interessata a minimizzare gli effetti della decisione Ue. Ma è una dinamica da cui aveva messo in guardia settimane fa anche il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen:
“L’Europa deve chiaramente ridurre la sua dipendenza dalla Russia per quanto riguarda l’energia, ma dobbiamo stare attenti quando pensiamo ad un completo bando europeo sulle importazioni, per esempio, di petrolio. Questo aumenterebbe i prezzi globali del petrolio, avrebbe un impatto dannoso sull’Europa e altre parti del mondo, mentre, controintuitivamente, un impatto negativo molto limitato sulla Russia, perché sebbene esporterebbe di meno, i prezzi per il suo export aumenterebbero”.
I prezzi attuali del greggio, già a livelli record, sono in realtà calmierati dalle restrizioni alla mobilità ancora in vigore in Cina, che stanno colpendo la domanda. Secondo alcuni analisti, l’impatto combinato dello stop all’import Ue e dell’uscita della Cina dai lockdown potrebbe portare il prezzo oltre i 180 dollari al barile (185 per Morgan Stanley).
Il suicidio: la transizione green
La più efficace sanzione contro la Russia sarebbe aumentare la produzione di energia in Occidente. Per esempio con il nucleare, ma anche facendo ripartire gli investimenti negli idrocarburi, così da abbassare i prezzi di petrolio e gas. Con le politiche green da anni stiamo facendo il contrario, spingendo a disinvestire e aggravando quindi il problema strutturale dell’offerta di energia.
Non puoi uscire dal nucleare, opporti al fracking, alle trivellazioni e ai gasdotti, rinunciare al carbone e ai rigassificatori, tutto in nome della follia green, e pensare che le tue politiche non abbiano effetti distruttivi sull’offerta.
In breve, è suicida pensare di fare a meno del petrolio, del gas e del carbone russi allo stesso tempo mantenendo inalterate le attuali politiche per la transizione green, che già prima della guerra in Ucraina erano all’origine dell’impennata dei prezzi energetici, o peggio accelerandole, come previsto nell’ultimo piano annunciato dalla Commissione europea, il REPowerEU, che dovrebbe metterci nelle condizioni di fare a meno del gas russo e farci uscire dalla crisi energetica. Non si capisce per quale misterioso incantesimo le stesse ricette con le quali ci siamo infilati in questo vicolo cieco, ora, potenziate, dovrebbero permetterci di uscirne.
In pratica, l’Ue sta prendendo a pretesto l’esigenza di affrancarci dalla dipendenza energetica da Mosca per spingere ancora di più la transizione green, ma è proprio la transizione green, con la sua cesta di politiche dirigiste e distorsive, che ha accresciuto la nostra dipendenza dal gas e causato l’impennata dei prezzi dell’energia – già in atto mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
Il ruolo di Washington
Un mistero il ruolo giocato da Washington nella decisione Ue. Delle perplessità espresse dal segretario al Tesoro Yellen già alcune settimane fa abbiamo detto, quindi dobbiamo presumere che nell’amministrazione Biden ci sia consapevolezza dei danni economici e dei contraccolpi politici che lo stop Ue al petrolio russo può provocare.
Una nuova impennata dei prezzi del greggio a livello globale e una ulteriore spinta inflazionistica non aumenterebbero certo le chance del presidente Biden e dei Democratici di uscire indenni dalle elezioni di midterm e presumibilmente farebbero venir meno quote importanti di consenso delle opinioni pubbliche occidentali alle politiche di contrasto dell’aggressione russa, dalle sanzioni all’invio di armi all’Ucraina. Ed è proprio ciò in cui spera Putin.
La sensazione è che il coordinamento iniziale Usa-Ue si sia sfibrato e che a Washington ci sia qualche problema di leadership.