Il caso non c’è: ecco il flop delle accuse contro Donald Trump

Processo politico: 34 capi d’accusa copia-incolla, ma l’accusa è solo una e debolissima. E il procuratore ammette: non specificato il reato che Trump voleva nascondere

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Nessuna sorpresa nei 34 capi d’accusa contestati all’ex presidente Donald Trump, comparso ieri in tribunale a Manhattan. Il caso, semplicemente, non c’è. E a riconoscerlo sono anche i commentatori chiamati a esprimersi dai principali network della sinistra progressista, dalla Cnn alla Bbc. Musi lunghi ovunque in diretta.

“Deludente, non c’è altro da dire, nessun fatto nuovo”, riconosce sconsolata l’esperta legale della Cnn Carrie Cordero. Se il procuratore Alvin Bragg ha un asso nella manica, l’ha tenuto ben nascosto.

Nel campo repubblicano, persino l’arci-nemico di Trump, il senatore Mitt Romney, pur ribadendo che il carattere e la condotta lo rendono “unfit” per la presidenza, tuttavia ha accusato il procuratore di New York di aver forzato la legge al fine di perseguire un’agenda politica.

Rischio crisi istituzionale

Da non sottovalutare la crisi istituzionale che l’incriminazione può provocare. Lo Speaker della Camera Kevin McCarthy, infatti, è tornato alla carica avvertendo che il procuratore “sarà ritenuto responsabile dal Congresso dell’uso politico della giustizia federale“:

Alvin Bragg sta tentando di interferire nel nostro processo democratico invocando la legge federale per lanciare accuse politicizzate contro il presidente Trump, dichiaratamente utilizzando fondi federali, mentre allo stesso tempo sostiene che i rappresentanti del popolo al Congresso non abbiano giurisdizione per indagare su questa farsa. Falso.

L’incriminazione di Trump “apre una nuova fase che non abbiamo mai visto prima nel Paese, in cui le differenze politiche saranno giudicate da pubblici ministeri in guerra”, ha osservato lo storico Victor Davis Hanson. Ci torneremo, ma veniamo all’udienza di ieri.

I 34 capi d’accusa copia-incolla

Non potendo presentarsi con un’accusa forte qualitativamente, il procuratore Bragg ha cercato di impressionare la giuria e l’opinione pubblica puntando sulla quantità: ben 34 capi di accusa. Che a ben guardare, però, si riducono ad una sola accusa: “falsificazione di documenti aziendali di primo grado, in violazione del codice penale § 175.10”.

In pratica, Bragg ha copiato e incollato la stessa accusa 34 volte, tante quanti sono stati i singoli pagamenti per comprare il silenzio della pornostar Stormy Daniels e di altri (un portiere d’albergo e un’altra donna, Karen McDougal). Capi di accusa che differiscono solo nelle date e nella tipologia del documento falsificato (fattura, libro mastro, assegno, etc.).

In ciascuno dei 34 capi d’accusa viene specificato che Trump lo abbia fatto con “l’intento di frodare e l’intento di commettere un altro crimine e aiutare e nascondere la commissione di questo crimine”.

“To conceal another crime”, per nascondere un altro crimine, è il modo escogitato dal procuratore per cercare di elevare la “falsificazione di registri societari”, un reato minore nello Stato di New York (misdemeanor) – probabilmente già prescritto, essendo il termine di due anni – in un crimine (felony), il cui termine di prescrizione è di cinque anni.

Manca il secondo reato

Ma se la “falsificazione di registri societari” diventa un crimine (felony) quando l’imputato agisce con l’intento di commettere e nascondere un altro reato, qual è il reato sottostante che Trump avrebbe commesso? Quale sarebbe esattamente il reato che avrebbe cercato di nascondere facendo passare per spese legali i pagamenti alle pornostar eseguiti tramite Cohen e la AM Inc.? E perché Trump non è stato accusato di questo reato né dallo Stato di New York, né da un procuratore federale?

Peccato – e questa è una lacuna nell’impianto accusatorio che non ci aspettavamo – che in nessuna parte dell’atto di incriminazione questo reato sottostante venga qualificato.

Per 34 volte Bragg scrive che Trump ha falsificato i documenti “per nascondere un altro reato”, ma in nessuno dei 34 capi d’accusa indica quale sarebbe questo “altro reato”. E in conferenza stampa lo ha ammesso candidamente, “l’atto di incriminazione non lo specifica“, spiegando che “la legge non lo richiede…”.

Solo nello “statement of facts” che accompagna l’atto d’incriminazione, il procuratore distrettuale suggerisce che questo secondo reato, che trasforma la falsificazione dei documenti societari da reato minore a crimine, consisterebbe in un piano illegale per influenzare le elezioni del 2016 e in “tentativi di violare” non meglio precisate “leggi elettorali statali e federali”.

Trump avrebbe “orchestrato un piano insieme ad altri, per influenzare le elezioni presidenziali del 2016, identificando e acquistando informazioni negative su di lui per impedirne la pubblicazione e favorire le sue prospettive elettorali” (cioè, una cosa che fanno tutti i candidati da che mondo è mondo, ben sapendo che accordi di riservatezza segreti non costituiscono reato). Nella conferenza stampa che ha tenuto al termine dell’udienza, il procuratore ha usato la parola “cospirazione”.

Ma di nuovo, né l’atto di incriminazione né lo “statement of facts” specificano quali siano le leggi statali o federali violate, ovvero il reato sottostante la falsificazione dei documenti societari. L’unica violazione contestata è quella del paragrafo 175.10 del codice penale dello Stato di New York.

Perché il procuratore Bragg non ha citato con precisione le leggi violate da Trump? Forse perché le leggi sul finanziamento delle campagne elettorali, nel caso delle elezioni presidenziali, sono federali e Bragg non avrebbe giurisdizione? Forse perché già la Federal Election Commission (FEC), il suo predecessore a capo della procura distrettuale di Manhattan e una procura federale avevano lasciato cadere il caso?

Cospirazione di chi?

Il colmo è che Trump si vede accusato di aver cospirato per influenzare le elezioni del 2016 quando in realtà è stato vittima precisamente di tale cospirazione da parte della sua avversaria.

Fu infatti Hillary Clinton a orchestrare un piano, insieme ad altri, per influenzare le elezioni presidenziali del 2016, non limitandosi a “identificare e acquistare informazioni negative” su di lui, ma fabbricandone di false – il famigerato Dossier Steele alla base della bufala Russiagate. E con l’aggravante di aver avuto il sostegno, nella sua cospirazione, del governo federale – FBI, Dipartimento di Giustizia e Casa Bianca – che ha spiato la Campagna Trump.

Tra l’altro, l’anno scorso la Clinton ha dovuto sanare una violazione della legge sui finanziamenti elettorali proprio per aver giustificato il pagamento del Dossier Steele come spese legali, ma se l’è cavata con una multa.

L’agenda politica dei progressisti

Bisogna ricordare, d’altra parte, che il procuratore distrettuale di Manhattan è un progressista radicale, eletto grazie a generosi finanziamenti del network di George Soros, e che ha fatto una campagna per mettere i poteri del suo ufficio al servizio di una parte politica, promettendo esplicitamente ai suoi elettori e donatori che avrebbe fatto di tutto per incriminare Donald Trump.

Da sempre i procuratori distrettuali sono cariche elettive, quindi in qualche misura politiche, ma qui c’è un salto di qualità che corrompe il sistema giudiziario come custode dello stato di diritto.

I progressisti usano il potere giudiziario come un’arma politica per (1) smantellare un sistema legale che considerano il fondamento di una società razzista e ingiusta e (2) per colpire e intimidire i loro nemici politici.

“La condanna di Donald Trump è secondaria”, osserva Andrew McCarthy sul New York Post. Per questa “sinistra bolscevica” oggi l’obiettivo è “fare del processo la pena”.

I tempi del processo

Ad ulteriore dimostrazione della natura squisitamente politica del processo, anche le date. Come riportato da Jake Gibson di Fox News, che era in aula, la procura aveva chiesto di celebrare il processo nel gennaio 2024, proprio alla vigilia delle primarie repubblicane (i caucus dell’Iowa si terranno infatti il 5 febbraio 2024).

Il giudice, che aveva deciso di non consentire la ripresa di immagini durante l’udienza, non ha disposto restrizioni pre-processuali nei confronti dell’ex presidente, che quindi ha potuto far ritorno in Florida, ma ha stabilito che Trump dovrà comparire in tribunale il 4 dicembre, quindi durante la stagione dei dibattiti delle primarie, che dovrebbe iniziare alla fine dell’estate del 2023.

Anche se l’ha anticipato di circa un mese rispetto alla richiesta del procuratore, è evidente che il processo influenzerà senza dubbio le primarie repubblicane, distraendo Trump e condizionando i suoi avversari. Ma ancor più grave, costringendo gli elettori repubblicani a esprimersi mentre l’esito del processo è ancora incerto, li priverebbe di fatto della possibilità di scegliere un altro candidato, qualora Trump fosse ritenuto colpevole.

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