Sembra che l’opinione internazionale non aprioristicamente nemica di Israele si stia assestando su una precisa opzione politica di una “reazione sproporzionata” per l’oggi e di “due stati per due popoli” per il domani, non senza far precedere una dura condanna per il massacro del 7 ottobre e cercar di fugare ogni tentazione di antisemitismo.
La posizione di Israele
Ora, tale opzione politica per quanto accattivante, quindi facile da condividere, come se costituisse di per sé il toccasana, non serve a cogliere la posizione di Israele, prima di criticarla anche duramente.
Israele è un Paese dominato dal complesso di un isolamento armato in un mondo circostante occupato prevalentemente da una popolazione araba di religione mussulmana, che ritiene abbia usurpato un territorio non suo, sì da aver tentato di distruggerlo in una serie interminabile di guerre.
Se c’è un modello perfetto di genocidio, nel senso del ripulisti di un intero popolo, tramite la cancellazione del suo Stato di appartenenza, questo è chiaramente nel programma di Hamas della fondazione di uno Stato palestinese dal Giordano al Mediterraneo, che, peraltro, come tale non è mai esistito.
Parlare di “reazione sproporzionata” significa dar per scontato che Israele abbia messo in piedi l’occupazione di Gaza, con tutta la ricaduta collaterale di 30 mila civili uccisi solo per vendicare la strage del 7 ottobre, che se così fosse risulterebbe essere del tutto sproporzionata. Ma, a stare alle ripetute dichiarazioni di Netanyahu, quella strage è stata la drammatica rivelazione che la minaccia veniva direttamente da Gaza, sì da chiudere il Paese nella tenaglia costituita dagli ex mullah a nord e di Hamas a Sud, proprio sulla linea stessa dei confini, sì da renderli perforabili senza preavviso.
E per Gaza la conferma sarebbe avvenuta proprio nel corso dell’invasione israeliana, con la scoperta di una intera città sotterranea, scavata sotto le fondamenta delle costruzioni civili, fra cui ospedali, scuole, insediamenti Onu, chiaramente pensata e realizzata in una prospettiva bellica di lunga durata, coerente con la sua finalità ultima di cancellare Israele dalla carta geografica.
La scommessa di Netanyahu
La scommessa del leader israeliano è quella di estirpare fisicamente la presenza di Hamas nella Striscia di Gaza, distruggendo la rete sotterranea ed eliminando la sua forza militare. L’impressione è che in partenza egli non ritenesse necessario condurre l’operazione lungo l’intera Striscia, fino al confine con l’Egitto, sottovalutando il costo sulla popolazione civile che sarebbe conseguito ad una progressiva estensione territoriale, nonché il dissenso interno già maturato per il suo tentativo di ridimensionare la giurisdizione della Corte costituzionale e rilanciato dal problema degli ostaggi, gestito con calcolato cinismo da Hamas.
Il tutto gli avrebbe progressivamente causato quell’isolamento interno ed internazionale di cui è oggetto, se pur non dissuadendolo dalla convinzione, corroborata dal corso dell’intero dopoguerra, che Israele debba provvedere alla propria difesa senza far conto alcuno sull’intervento diretto di Paesi amici.
Non è da escludere, anzi tutt’altro, che il personaggio leghi alla riuscita dell’operazione la sua sopravvivenza politica, ma sarebbe eccessivo ricondurre la sua ostinazione nel portare fino in fondo l’operazione solo a questo, dato che è condivisa dall’intero gabinetto di guerra espressivo della maggioranza parlamentare.
È su questa scommessa che deve essere giudicato il leader israeliano, dando per scontato che sia in grado di portarla a compimento, occupando l’intera Striscia, ma rivelandone l’intrinseca debolezza. Deve essere sottolineato che l’ideale radicale di cui Hamas è portatrice – non due Stati, ma un solo Stato palestinese al posto di quello ebraico – non può essere contrastato con una eliminazione fisica di una formazione terroristica capace di occultarsi nella popolazione.
Anzi, proprio questa operazione tende a rafforzarla, perché lascia acefala la popolazione della Striscia, facile preda della radicalizzazione provocata in tutto il mondo arabo, per cui Israele appare come un corpo estraneo che ne rompe la continuità religiosa, politica e civile, un avamposto culturale ed economico di quell’Occidente nemico secolare. Anche perché Israele rimane un modello di democrazia ed efficienza piazzato proprio alle porte di casa, un impietoso termine di confronto per ogni altro Paese arabo.
L’accettazione di Israele
Di questo Netanyahu è pienamente consapevole, tanto di parlare di una occupazione della Striscia a tempo indeterminato, sì da precludere in radice quel che suona come un mantra, cioè due popoli, due Stati. Ai suoi occhi il problema non è dato dalla creazione di uno Stato palestinese, ma dalla convinta accettazione dello Stato israeliano da parte di tutto il mondo arabo, perché, altrimenti, lo stesso Stato palestinese potrebbe rapidamente conformarsi come quello che chiude la cintura offensiva eretta proprio a ridosso dei confini di Israele.
La scommessa del governo israeliano è perdente laddove si autocondanna a condurre un popolo perennemente in armi, quello che è stato fino ad oggi, assicurandone la sopravvivenza, ma così da accentuare la contrarietà dei Paesi arabi, con la massiva mobilitazione delle masse di quei Paesi in un fervore religioso al limite del fanatismo.
Senza rompere questa spirale non ci sarà pace, che non può arrivare con una semplice tolleranza, ma con una concorde accettazione dell’esistenza dello Stato di Israele da parte dei Paesi arabi, strada rivelatasi fino ad oggi impercorribile, oggi meno ancor più di ieri.