Da poche ore si sono spente le luci sulle celebrazioni dell’80° anniversario del D-Day, l’ultimo decennale in cui hanno partecipato i pochi reduci sopravvissuti, ormai centenari. Ecco lì – come sempre – schierati i leader dell’Occidente a ricordare il passato e a parlare di presente. Invitato non troppo “speciale” il presidente ucraino.
L’assenza di Putin
Alle persone meno attente strideva la mancanza del presidente russo Vladimir Putin. Certo, è noto che nel 2014 e nel 2024, meno gonfio in viso, era presente a queste celebrazioni, ma giusto per ricordare il proprio ruolo (non quello della Russia) nell’arena mondiale. Quest’anno non è stato invitato per via delle contrapposizioni tra il suo Paese e l’Occidente, ma la cosa non deve figurare strana, piuttosto sarebbe stata anomala la sua presenza, nel continuum diplomatico.
Mai un leader sovietico partecipò a quella celebrazione. Lo stesso Putin nel 2019, interrogato sul perché non avesse ricevuto l’invito per il 75° anniversario, ricordò come quella data celebrasse l’apertura del “secondo fronte”: “attiro la vostra attenzione sul fatto che questo è il Secondo Fronte. Il primo è stato con noi. Se si conta il numero delle divisioni, la forza della Wehrmacht che combatté contro le truppe sovietiche sul fronte orientale e il numero delle truppe e degli equipaggiamenti che combatterono sul fronte occidentale dal 1944 in poi, allora tutto sarà chiaro”.
La Grande Guerra Patriottica
Sempre in quell’ormai lontanissimo 2019, la portavoce del Ministero degli esteri russo Maria Zakharova commentò in modo sprezzante la celebrazione: “Lo sbarco in Normandia non ha rappresentato un punto di svolta per l’esito della Seconda Guerra Mondiale e della Grande Guerra Patriottica. Il risultato fu determinato dalle vittorie dell’Armata Rossa – principalmente a Stalingrado e Kursk. Per tre anni, il Regno Unito e poi gli Stati Uniti hanno trascinato l’apertura del Secondo Fronte”.
Proprio in quell’occasione, sul sito Cnn, Nathan Hodge (“Russia lost the most lives during WW2. So why wasn’t Putin invited to D-Day event?”), ricordò come il ricordo della “Grande Guerra Patriottica” fosse “un argomento delicato per la Russia. La venerazione dei caduti sovietici in guerra è stata elevata a qualcosa che si avvicina a una religione secolare in Russia, in particolare dopo il crollo dell’Urss e la fine del comunismo come ideologia guida. Ma il passato non è passato per la Russia. La lunga ombra della Seconda Guerra Mondiale incombe ancora sulla politica estera della Russia”.
Osservazioni corrette cinque anni fa e ancor più valide oggi. Da sempre sia l’Urss, sia la Russia si sono ritenute, grazie all’innegabile contributo di sangue – l’attore politico che aveva sconfitto la Germania nazista. Questa fu la giustificazione o – sarebbe meglio dire – la scusa che veniva accampata da Mosca per giustificare il “pugno duro” che imposero all’Est europeo, occupato dall’Armata Rossa. Lo ritenevano un diritto, in barba alle popolazioni assoggettate, che – quando si dissolse l’Urss – colsero l’occasione di liberarsi dal giogo russo e chiedere la protezione dell’Occidente, che – con tutti i suoi limiti – non faceva mancare beni materiali ai nuovi clientes.
Due guerre parallele
In una serena riflessione storiografica non si può non riconoscere che la Seconda Guerra Mondiale si concretizzò, da un lato per le potenze occidentali, dall’altra per l’Urss, in due “guerre parallele”. Sicuramente i “grandi” si incontrarono tre volte e questi appuntamenti furono anticipati e seguiti da un gran numero di riunioni dei differenti sherpa, ma non toglie che i vari alleati rappresentavano, in modo netto, differenti “comunità di destino”.
Ad occidente non si può dimenticare l’ambiguità sovietica nel periodo 1939-41, con la sua invasione dei Paesi baltici e dell’Est della Polonia e l’inutile entrata in guerra contro il Giappone. Ad est non si dimentica che il “dissanguamento” di forze sovietiche fu provocato anche dall’attendismo anglo-americano.
Senza ricordare le opere di Viktor Suvorov – già agente del Servizio Segreto Militare (GRU) sovietico e, dopo la sua defezione, analista dei servizi britannici – estremamente documentate, ma mal digerite dalla storiografia ufficiale, e soprattutto da molte cancellerie, è necessario rilevare che da qualche anno sulle rive della Moscova si cerca di riscrivere la storia: Stalin era rude, ma non vi sono crimini a suo carico, tutto frutto di propaganda anti-russa; l’eccidio di Katyn – nonostante Gorbaciov e Eltsin abbiano affermato, e fornito documentazione, delle responsabilità sovietiche – torna ad essere, nella nuova vulgata putiniana – un crimine nazista.
Gli aiuti Usa a Stalin
Nel 2021, in un discorso pubblico Putin affermò: “Il popolo sovietico ha liberato l’Europa dalla peste bruna”. Che l’abbia fatto anche con l’aiuto americano, è opportunamente omesso. Eppure, già nel 1963 il maresciallo Zukov – spiato dal KGB – riconobbe, in una conversazione telefonica, che senza i materiali americani “noi non avremmo vinto la guerra”.
D’altronde, ricorda nel 2021 Leonardo Coen su Il Fatto Quotidiano (un quotidiano che non può essere accusato di atlantismo), gli Stati Uniti – con il Lend Lease Act – inviarono ai sovietici 14 mila aerei, 43.728 jeep, 3.510 mezzi anfibi, 12.161 blindati da combattimento, 13.6190 pezzi d’artiglieria leggera, 32.5784 tonnellate d’esplosivi, 205 torpedini, 140 cacciatorpediniere, 28 fregate. Inoltre consegnarono 35.800 postazioni radio, 3.400 km di cavi marini, 1.823 km di cavi sottomarini, un milione e mezzo di km di cavi telegrafici. Oltre a ciò vennero mandate 1.846 locomotive (l’Urss ne produsse in proprio solo 20) e più di 10 mila vagoni, essenziali per il trasporto truppe ed armi.
Ma i soldati devono mangiare e la Casa Bianca ordina alle proprie fabbriche alimentari di preparare 5 milioni di tonnellate di razioni militari. Ci si preoccupa di dare anche 55 milioni di metri di tessuto di cotone, 49 milioni di metri di tessuto di lana, 14 milioni di paia di scarponi. È così difficile ammettere che questi aiuti sono stati decisivi per la vittoria dell’Urss? Per Putin, evidentemente, sì!
Le nuove linee rosse di Putin
Alle celebrazioni del 6 giugno 2024 come ha risposto il dittatore russo – come l’ha chiamato Joe Biden in quell’occasione – da sempre ossessionato dalla storia? Il giorno prima Putin ha convocato una conferenza stampa il cui contenuto figura sempre ondivago, tra dichiarazioni di non responsabilità, minacce e disponibilità al dialogo.
Ma vi sono reali novità? In fondo poche. Certo – mai successo prima – il presidente russo ha detto, a chiare note: “Se qualcuno fornisce armi di precisione per gli attacchi contro la Russia, considereremo una risposta asimmetrica, che consiste nel fornire armi simili a Paesi terzi”. Poi, entrando in contraddizione, ecco che si afferma che la Russia non vuole attaccare la Nato. Parole mai dette prima, ma che non costituiscono un ulteriore passo verso l’escalation, perché ovvie e scontate in una logica di confronto. Parole vuote.
Come potrebbero essere fornite armi a Paesi terzi, se Mosca – già adesso – è costretta ad importare munizionamento, di vario tipo, da attori ostili all’Occidente come Teheran e Pyongyang, senza contare gli aiuti, non meglio identificati, di Pechino? Ancor più velleitaria l’annunciata “ginnastica militare” russa nei Caraibi; “parole, parole, parole” recitava il testo di una vecchia canzone.
Il resto della conferenza stampa è l’elencazione delle buone e legittime ragioni della Russia, che conferma la non responsabilità russa del conflitto, scaricandola sui “golpisti” del 2014. Se da un lato l’autocrate ha detto di supporre che non si arriverà mai all’utilizzo di armi nucleari, dall’altro ribadisce che se la sovranità e l’integrità russa verranno minacciate, “potrebbero essere usati tutti i mezzi richiesti”. Dov’è la notizia? Ha ragione Dario Fabbri a dire che Putin ha tracciato “un’ennesima linea rossa, un po’ più arretrata delle precedenti”.
Più corretta, ma ovvia, l’affermazione che “gli Usa non combattono per l’Ucraina, ma per la propria leadership nel mondo, e per questo non vogliono che la Russia prevalga”. Washington combatte sia per l’Ucraina, sia per il proprio ruolo nell’arena internazionale. Quando mai, nella storia, una potenza egemone rinuncia al proprio ruolo per scelta unilaterale? Solo la risibile cultura di un Travaglio qualunque può spingere a dire che gli Usa dovrebbero smantellare – motu proprio – il loro ruolo di potenza planetaria a favore di chissà quali incerti equilibri.
Poi ecco le sparate sulle perdite ucraine cinque volte superiori a quelle russe. Vabbè! È ben vero che “la verità è la prima vittima della guerra”, come diceva Eschilo, quindi, sono indubbiamente elaborati ad arte anche i dati ucraini, per quanto confermati – in gran parte – dall’Intelligence britannica; ma è universalmente noto che l’attacco è – in termine di vite umane – più costoso della difesa.
La dichiarazione a Omaha Beach
Per una volta le parole più dure e minacciose, seppur edulcorate dal linguaggio diplomatico, sono proprio quelle dei 19 leader presenti a Saint-Laurent-sur-Mer (Omaha Beach) che – riappropriandosi della storia (l’arma sempre più forte) hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta:
Riuniti oggi nella ricorrenza dell’80° anniversario dello sbarco in Normandia per commemorare il sacrificio di tutti coloro che hanno liberato l’Europa dall’oppressione, ricordiamo gli ideali e i principi per cui essi hanno combattuto. A ottanta anni di distanza, tali ideali continuano a guidare ogni nostra azione, in quanto rappresentano gli elementi fondanti della pace e della sicurezza globale. Sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e difesi dagli alleati della Nato fin dalla firma del Trattato di Washington, 75 anni fa, questi principi sono nuovamente sotto attacco diretto nel continente europeo. Dinanzi ad una guerra di aggressione illegittima, i nostri Paesi riaffermano la loro adesione congiunta a questi valori fondamentali […]
Più chiaro di così! Forse non sarà vera la presunta affermazione di Winston Churchill: “Abbiamo ammazzato il porco sbagliato!”. È vero però che – periodicamente – sorge dal disordine del mondo un suide che, come il cinghiale di Erimànto, minaccia la civile convivenza e deve essere messo nella condizione di non nuocere.