Il jihad africano avanza: malgoverno e corruzione lo favoriscono

I leader africani maestri nell’attribuire le responsabilità ad altri, in particolare all’Occidente. La penetrazione russa con i mercenari della Wagner

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L’attentato del 15 gennaio, nella Repubblica democratica del Congo, alla chiesa pentecostale di Kasindi, una città della provincia orientale del Nord Kivu, vicina al confine con l’Uganda, richiama l’attenzione sul jihad africano.

È stato infatti compiuto dalle Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo armato ugandese affiliato all’Isis, lo Stato Islamico, attivo dal 2001 nell’est del Congo dove si è insediato dopo essere stato sconfitto e messo in fuga dall’esercito ugandese.

Il 2022 ha visto consolidarsi ed estendersi la presenza nel continente di gruppi jihadisti che ormai minacciano almeno un terzo dei 54 Stati africani e il 2023 è iniziato in Africa con una raffica di attacchi e attentati.

Somalia

In Somalia al Shabaab, il gruppo jihadista affiliato ad al Qaeda che combatte contro il governo dal 2007, ha già messo a segno quattro attacchi mortali. Il 4 gennaio due auto bomba hanno ucciso almeno 35 persone e raso al suolo diverse abitazioni nella regione centrale di Hiraan.

Due giorni dopo, i combattenti islamici hanno ucciso sei persone durante l’attacco a un villaggio che una settimana prima le truppe governative e alleate avevano riconquistato. Il 14 gennaio due autobomba guidate da attentatori suicidi sono esplose a un posto di blocco militare uccidendo un soldato e ferendone almeno sei.

Il 17 gennaio un altro attentatore suicida a bordo di un auto è saltato in aria nella base militare di un villaggio, circa 60 chilometri a nord della capitale Mogadiscio, dopo di che i jihadisti hanno aperto il fuoco uccidendo sette soldati tra cui il comandante della base.

Mali

In Mali il 4 gennaio cinque persone, tre civili e due vigili del fuoco volontari sono stati uccisi durante un attacco messo a segno a circa 80 chilometri dalla capitale Bamako, nel sud est del Paese, una regione in cui attentati e attacchi sono insoliti perché i gruppi jihadisti sono attivi nei territori centrali e settentrionali.

Burkina Faso

Il 12 e 13 gennaio nel nord del Burkina Faso dei jihadisti hanno rapito circa 50 donne che stavano raccogliendo erbe e frutti selvatici. Alcune sono riuscite a scappare e hanno dato l’allarme, ma la notizia si è diffusa solo dopo quattro giorni perché i jihadisti bloccano le strade d’accesso e la regione è quasi del tutto isolata.

Congo

La bomba esplosa nella chiesa in Congo ha ucciso 17 persone e ne ha ferite 39. La chiesa era gremita perché era in corso il servizio religioso domenicale. A rivendicare l’attentato poche ore dopo, vantandosi di aver ucciso e ferito decine di cristiani e annunciando ulteriori attacchi, è stata l’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico, fondata nel 2019, tre anni dopo che il leader delle Adf, Musa Seka Baluku, aveva giurato fedeltà all’Isis.

I Paesi più colpiti dal jihad sono la Somalia, il Burkina Faso, il Mali, il Niger e la Nigeria, ma altri stati sub-sahariani e tutto il Sahel ne sono in qualche misura infestati. Paesi che erano stati risparmiati o coinvolti sporadicamente, adesso ne subiscono la violenza o ne temono la diffusione.

Mozambico

Ansar Al-Sunna Wa Jamma, ad esempio, un gruppo localmente conosciuto anche come al Shabaab, si è costituito nel 2015 nel nord del Mozambico con poche decine di uomini, ha incominciato a razziare e terrorizzare villaggi remoti nella provincia di Cabo Delgado nel 2017.

Ma solo dal 2021, cresciuto in numero e armamenti, è diventato una minaccia per l’intera regione, al punto da attaccare e occupare grandi centri urbani come Mocimboa da Praia, una città portuale di oltre 100 mila abitanti, liberata lo scorso anno dopo essere stata nella morsa dei jihadisti per mesi. Anche Ansar Al-Sunna Wa Jamma è affiliato all’Isis e fa parte dell’Iscap.

Africa occidentale

Preoccupa in particolare la situazione degli stati costieri dell’Africa occidentale. Costa d’Avorio, Ghana, Togo e Benin finora hanno subito attentati e attacchi, sempre più frequenti nel 2022, da parte di jihadisti provenienti dai Paesi con cui confinano a nord – Niger, Burkina Faso e Mali – ma il timore è che il jihad possa insediarsi anche nei loro territori creandovi basi e cellule.

Le cause

È un timore fondato, a causa dei confini incustoditi, permeabili, ma soprattutto per l’esistenza degli stessi problemi che in tutto il continente favoriscono la proliferazione di gruppi jihadisti, bande armate, organizzazioni criminali: malgoverno, corruzione, inerzia governativa, insuperabili divisioni etniche e religiose, povertà, crescita economica senza sviluppo, sfiducia nelle istituzioni politiche, crescente disoccupazione giovanile.

Due colpi di stato in poco tempo sia in Mali (agosto 2020 e maggio 2021) che in Burkina Faso (gennaio e settembre 2022) hanno peggiorato le prospettive così come la gravissima crisi economica in Ghana, un Paese fino a pochi anni fa portato a modello di sviluppo.

Maestri nello scaricabarile

Ma i leader africani sono maestri nell’attribuire le responsabilità ad altri, di preferenza all’Occidente. Come se non fossero prima di tutto i governi a dover garantire la sicurezza dei loro Paesi, sono riusciti a convincere almeno una parte dei loro connazionali che, se non si riesce a sconfiggere il jihad, la colpa è della Francia e degli altri Stati europei, delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti che hanno fornito mezzi e uomini per combatterlo rivelatisi insufficienti.

In realtà, le operazioni militari straniere dei risultati li hanno ottenuti. In Mali, ad esempio, solo l’intervento francese ha liberato almeno in parte i territori occupati nel 2012 da tre gruppi jihadisti, né si può sapere quanto maggiore sarebbe oggi la minaccia jihadista in Africa senza l’aiuto, da oltre vent’anni, di Nazioni Unite, Unione europea, Usa e altri stati.

Le proteste

Tuttavia, nel 2022 ci sono state manifestazioni popolari di protesta contro la Francia e contro le missioni di pace delle Nazioni Unite in Burkina Faso, Niger, Repubblica democratica del Congo, Mali. Un anno fa la Francia prima e altri Stati europei successivamente hanno deciso di richiamare i loro militari impegnati in Mali. Le truppe europee della Task Force Takuba sono partite a luglio; quelle francesi della operazione Barkhane hanno lasciato il Paese a novembre.

La penetrazione russa

Abbandonato anche dagli alleati africani, al momento il governo maliano fa affidamento sui mercenari russi del gruppo Wagner e sugli armamenti forniti dalla Russia. Mosca a partire soprattutto dal 2016 si è fatta strada in Africa fornendo armi e istruttori militari. Sono almeno 20 i governi africani con cui ha stipulato accordi di cooperazione militare.

I mercenari del gruppo Wagner sono presenti, oltre che in Mali, nella Repubblica Centrafricana, in Libia e in Sudan, forse anche nell’est della Repubblica democratica del Congo. I risultati della loro presenza e dell’assistenza militare russa ancora non si vedono.

Addirittura in Mozambico nel 2021 i mercenari Wagner si sono ritirati di fronte all’avanzata dei jihadisti e a sostituirli sono arrivati i mercenari sudafricani e truppe africane inviate dal Rwanda e da altri Stati.

Come osserva la ricercatrice del Csis Catrina Doxsee, d’altra parte, ”se dei mercenari riuscissero a mettere del tutto fine a un conflitto, non ci sarebbe più bisogno di loro. Non hanno interesse ad avere un successo completo”.

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