Inutile girarci intorno, il negoziato con Mosca sulla guerra in Ucraina non sta andando come Washington vorrebbe. E l’avevamo già intuito dalla telefonata Trump-Putin, da cui non era uscita alcuna “svolta” ma un contentino simbolico. Col senno di poi, anche i toni scelti da Trump per commentare il suo colloquio con Putin non furono poi così entusiastici: “molto buono” e “produttivo” suonano fin troppo diplomatici e misurati rispetto alle parole roboanti a cui ci ha abituati il presidente Usa, che si sforzava evidentemente di guardare il bicchiere mezzo pieno.
La frustrazione Usa
Ieri è trapelato che il segretario di Stato Marco Rubio avrebbe detto ai suoi colleghi dei Paesi baltici che le prospettive di un cessate il fuoco in Ucraina non sembrano promettenti e che gli Stati Uniti sono ancora lontani da un accordo. Secondo Reuters, alti funzionari Usa ritengono “improbabile” un cessate il fuoco in Ucraina “nei prossimi mesi”.
Nei giorni successivi la Casa Bianca ha scelto di far trapelare, attraverso Nbc prima e Fox News poi, la sua frustrazione. Non smentita, una giornalista di Nbc ha riferito di un Trump “molto arrabbiato e incazzato” con Putin per aver contestato la legittimità del presidente ucraino Zelensky, nonché pronto ad adottare sanzioni secondarie sul petrolio russo.
Martedì il viceministro degli esteri russo Sergei Ryabkov ha spiegato che sebbene Mosca “prende molto seriamente” le proposte degli Stati Uniti sull’Ucraina, tuttavia “non può accettarle così come sono”, perché al momento mancano risposte alla richiesta principale della Russia, vale a dire la “rimozione delle cause profonde del conflitto” – anche se Putin “rimane aperto a negoziati di pace”, assicura il portavoce Peskov.
Aria di sanzioni
Sempre martedì fonti dell’amministrazione Usa hanno riferito a Fox News che Trump starebbe pensando a sanzioni “aggressive” contro la Russia. In particolare, punterebbero alla cosiddetta “flotta fantasma”, cioè le navi utilizzate da Mosca per aggirare le sanzioni e attraverso cui passerebbe il 70 per cento delle vendite illecite di petrolio russo.
Il livello di “enforcing”, di rispetto delle sanzioni, è attualmente basso, valutato informalmente a circa “3 su 10”, hanno spiegato le stesse fonti. Insomma, attualmente le sanzioni sono un colabrodo e i margini per rafforzarle sono quindi molto ampi.
Mentre il negoziatore Usa Steve Witkoff incontrava a Washington il russo Kirill Dmitriev, ceo del Fondo per gli investimenti diretti russi, il senatore repubblicano Lindsey Graham, sostenitore del presidente Trump, e il democratico Richard Blumenthal, annunciavano di aver depositato un disegno di legge bipartisan che propone l’imposizione di dazi del 500 per cento sui beni importati dai Paesi che acquistano petrolio, gas, uranio e altri prodotti dalla Russia.
Ieri il Dipartimento del Tesoro ha reso noto di aver sanzionato una società e quattro individui di base in Russia, due afghani e due russi, per le loro attività di sostegno agli Houthi, in particolare la spedizione di armi e merci, tra cui il grano rubato agli ucraini, per milioni di dollari.
“È arrivato il momento per sanzioni serie contro la Russia“, titolava ieri il Wall Street Journal, osservando che Putin “non mostra ancora alcun segno di essere serio sul negoziato di pace, nemmeno una pausa di trenta giorni”.
L’errore sul casus belli
Lo avevamo detto fin dal primo momento che non sarebbe stato così facile. E dal primo momento e in ogni nostro articolo che difficilmente Trump avrebbe ottenuto qualcosa senza esercitare una seria pressione su Mosca. Siamo forse alla presa di consapevolezza.
Così come abbiamo ripetuto che l’idea di Trump di porre fine alla guerra in tempi brevi (ovviamente le 24 ore erano simboliche) derivava dalla erronea convinzione che il casus belli fosse l’ingresso di Kiev nella Nato – da qui anche la sua convinzione che il conflitto si poteva facilmente evitare, se solo gli ucraini vi avessero rinunciato, e quindi in questo senso che Zelensky avesse “dato inizio a questa cosa”.
Il falso idillio
L’idillio tra Russia e Usa è una illusione ottica generata da una parte dall’ottimismo della volontà del presidente Trump riguardo il processo negoziale su cui tanto ha investito fin dalla campagna elettorale, dall’altra dall’interesse di Putin nel trarre il massimo guadagno possibile dall’apertura Usa, magari un alleggerimento delle sanzioni, senza concedere nulla di concreto proprio sull’Ucraina.
Ora tutto dipenderà dalla capacità del presidente Usa e dei suoi consiglieri di riconoscere rapidamente la realtà più complessa delle cause dell’aggressione russa e riconsiderare le proprie aspettative e strategie.
Se Putin pensava che Trump fosse pronto a regalargli l’Ucraina e a spartirsi con lui l’Europa, l’arrabbiatura che trapela da Washington per la riluttanza di Mosca a scendere a compromessi sull’Ucraina, così come le valutazioni in corso su strumenti di pressione, inducono a ritenere che possa aver sbagliato i suoi calcoli. Il che rende ancora più evidente l’errore commesso da Zelensky nello Studio Ovale.
Di nuovo, chi vivrà vedrà, ma al momento non ci sono riscontri dell’intenzione dell’amministrazione Trump di svendere l’Ucraina, e tanto meno l’Europa, alla Russia, nonostante molti anche in campo liberale e conservatore l’abbiano data frettolosamente per scontata. Il desiderio e la fretta di arrivare ad un cessate il fuoco e alla pace possono ancora produrre disastri, ma l’irritazione che la Casa Bianca ha voluto far trapelare per la posizione russa è un segnale incoraggiante.
L’invito a Xi
Nel frattempo, ricevendo a Mosca il ministro degli esteri cinese Wang Yi, Putin ricordato l’invito a Xi Jinping in occasione delle celebrazioni dell’80esimo anniversario del Giorno della Vittoria sovietica contro il nazismo, il prossimo 9 maggio. “Sarà il nostro ospite principale”, ha dichiarato il presidente russo mostrando come il legame strategico tra Mosca e Pechino resiste al disgelo delle relazioni con Washington.