Esteri

Il Papa militante che finisce per fare causa comune con i peggiori regimi

Nuovo scontro con Israele, Papa Francesco non riesce a resistere al fascino delle cattive compagnie. Da Pechino a Teheran fino a Damasco, colleziona autocrati e tagliagole islamisti

Da quanto sembra, Papa Francesco proprio non riesce a resistere al fascino delle cattive compagnie. Da Pechino a Teheran fino a Damasco, il Santo Padre va a raccolta di autocrati e fondamentalisti come un collezionista di francobolli a caccia di esemplari rari. Se il Vaticano dovesse mai inaugurare una mostra sull’Asse del Male, non gli mancherebbe il materiale.

Sintonia con Teheran

Alla vigilia della ricorrenza dell’Epifania, per l’ennesima volta, Jorge Mario Bergoglio ha alimentato polemiche antisioniste, regalando, al tempo stesso, una vittoria mediatica al regime iraniano.

Secondo la Iranian Republic News Agency (IRNA), nel recente incontro a Roma con Abolhassan Navab, rettore dell’Università delle Religioni e Denominazioni di Qum, il Papa ha trovato con l’ospite sciita una convergenza su comuni sentimenti ostili verso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Anche noi [come l’Iran] non abbiamo problemi con gli ebrei; l’unico problema è con Netanyahu che, ignorando le leggi internazionali e i diritti umani, ha creato crisi nella regione e nel mondo”. Queste parole infauste non sono state finora smentite dal Vaticano, attirando l’attenzione sulla posizione critica del Papa nei confronti delle azioni di Netanyahu a difesa dello Stato di Israele.

Papa Francesco ha ora intenzionalmente aperto uno scontro con Israele attraverso una serie di dichiarazioni e gesti irrituali. Nel suo libro per il Giubileo 2025, “La speranza non delude mai”, il Pontefice ha affermato che si dovrebbe verificare se a Gaza si stia perpetrando “un genocidio”, un’affermazione che ha immediatamente attirato critiche da parte delle autorità israeliane e delle comunità ebraiche.

Le tensioni si sono acuite ulteriormente durante gli auguri natalizi alla Curia e nell’Angelus che ha preceduto il Natale, quando il Papa ha espresso il suo dolore per i “bambini mitragliati a Gaza” e la “crudeltà israeliana”, parole che hanno collocato il Vaticano nel campo della narrazione filopalestinese.

A far crescere lo sconcerto è stato anche un dettaglio simbolico che non è passato inosservato: la kefiah, tradizionalmente associata alla causa palestinese, che adornava il presepe allestito nell’aula Paolo VI. Questo elemento, carico di significato politico, è stato interpretato come un’ulteriore presa di posizione a favore del terrorismo palestinese, suscitando malumori e interrogativi sulle reali intenzioni della Santa Sede.

Le lodi di al-Jawlani

In questo clima teso, le parole e i gesti del Papa non solo hanno rafforzato la percezione di una frattura tra il Vaticano e Israele, ma hanno anche alimentato il dibattito sul ruolo della Chiesa cattolica nei conflitti mediorientali quando è entrato in scena Abu Mohammed al-Jawlani, il leader de facto della Siria ed ex affiliato di al-Qaeda. Secondo l’Osservatore Romano, in un incontro con padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, avvenuto il 31 dicembre a Damasco, Jawlani ha lodato Papa Francesco, dichiarando che i cristiani sono una “parte integrante” della storia siriana. Si è spinto persino a definire il Pontefice un “vero uomo di pace.”

Ma quelle parole calde e confortanti sono il rumore delle milizie jihadiste che ripuliscono la propria immagine con l’involontaria benedizione del Vaticano. Un’alleanza poco santa sembra prendere forma. E questo non è un episodio isolato, ma parte di una tendenza più ampia. Così come il Papa si è piegato per raggiungere un accordo con la Cina, ora sembra porgere ramoscelli d’ulivo a figure criminali che vedono la democrazia con sospetto e il pluralismo religioso come un’eresia.

L’appeasement con Pechino

L’approccio del Vaticano verso la Cina è un caso esemplare. Francesco ha iniziato la sua campagna di appeasement evitando accuratamente critiche alle persecuzioni dei cattolici da parte del regime cinese. Nel 2018, la Santa Sede ha firmato un accordo con Pechino, concedendo al Partito Comunista Cinese il ruolo di nomina dei vescovi.

Sulla carta, il Vaticano ha mantenuto il potere di veto, ma la realtà era evidente: la Chiesa clandestina, fedele a Roma per decenni, si è ritrovata emarginata a favore di un clero approvato dai comunisti. I critici, sia all’interno che all’esterno della Chiesa, hanno visto in questo accordo una pericolosa concessione che ha rafforzato Pechino indebolendo l’autorità morale della Chiesa.

La Teologia della liberazione

Ora, il Papa sembra seguire lo stesso approccio in Medio Oriente. La sua grande strategia sembra radicata nei principi della Teologia della liberazione, una visione che combina il cristianesimo con il pensiero marxista. La sua principale preoccupazione è la lotta contro le ingiustizie sociali ed economiche, ponendo al centro la liberazione dei poveri e degli oppressi.

La teologia della liberazione interpreta il messaggio cristiano come un invito a impegnarsi attivamente nella trasformazione sociale, rifiutando l’indifferenza verso la povertà. Tuttavia, essendo influenzata dal marxismo, spesso si concentra sull’analisi della lotta di classe e propone la riforma delle strutture socio-economiche in chiave rivoluzionaria.

La sua principale debolezza risiede nell’adozione di un pensiero che riduce la spiritualità a una lotta materialista, con il rischio di svuotare il cristianesimo del suo significato spirituale per adattarlo a una visione ideologica. Nella ricerca di elevare i poveri e gli emarginati, il Vaticano si ritrova sempre più spesso a fare causa comune con regimi che calpestano proprio quegli ideali, come un qualunque regime comunista.

Dunque, Papa Francesco si vede come una moderna incarnazione di Ignazio di Loyola, ma farebbe bene a ricordare le parole immortali di Winston Churchill: “Un pacificatore è uno che nutre un coccodrillo, sperando che lo mangi per ultimo.” L’unica domanda da porsi è quale coccodrillo arriverà per primo.