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“Il presidente non sa nulla di economia”: dure reazioni allo scaricabarile di Biden

Attacchi da Jeff Bezos e WSJ. Biden ha legato le mani all’industria petrolifera in nome della transizione green. E ora pensa di alleggerire i dazi alla Cina

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Doveva essere transitoria, così l’avevano battezzata sia la Fed che il Dipartimento del Tesoro, guidato dalla ex Fed Janet Yellen. Ma dopo averla a lungo sottovalutata, hanno dovuto ammettere che l’inflazione è qui per restare.

Nel mese di giugno negli Stati Uniti ha toccato quota 8,6 per cento, un livello che non raggiungeva dal 1986. Ma sono in particolare i prezzi dei carburanti che stanno facendo saltare i nervi agli americani.

Lo scaricabarile di Biden

La Fed ha cominciato ad alzare i tassi di interesse, mentre il presidente Joe Biden, mal imbeccato dal suo staff, non potendo più nascondere la testa sotto la sabbia, fa lo scaricabarile, nonostante una delle promesse in campagna elettorale fosse proprio di assumersi sempre le proprie responsabilità e non fare scaricabarile.

E invece, prima ha dato la colpa a Putin (“Putin Price Hike” è il termine usato ripetutamente dalla Casa Bianca). Poi ha puntato il dito contro le compagnie petrolifere e ora addirittura le stazioni di servizio. Tutto nell’arco di poche settimane.

Ma inizialmente, Biden aveva persino mostrato un certo compiacimento per l’aumento dei prezzi, a suo dire effetto di una incredibile transizione green. Quando, il 24 maggio, un gallone era ancora a 4,56 dollari, il presidente se ne uscì con queste parole durante una conferenza stampa con il premier giapponese Kishida:

“Stiamo attraversando un’incredibile transizione che, a Dio piacendo, quando sarà finita, saremo più forti e il mondo sarà più forte e meno dipendente da combustibili fossili, quando tutto questo sarà finito”.

L’ultimo tweet

Pochi giorni fa, ne abbiamo parlato su Atlantico Quotidiano, la piccata risposta del ceo di Chevron alla lettera in cui il presidente intimava alle compagnie petrolifere di aumentare la produzione, accusandole di accumulare extra-profitti.

La realtà è che le raffinerie Usa stanno già operando al 94 per cento della loro capacità, e quelle nel Golfo del Messico al 98 per cento, il tasso più alto degli ultimi trent’anni.

L’ultimo tweet del presidente ha scatenato reazioni durissime, tra cui quelle di Jeff Bezos e, ieri, del board editoriale del Wall Street Journal, che gli hanno dato senza troppe sfumature dell’incompetente.

“Il mio messaggio alle società che gestiscono i distributori di benzina e fissano i prezzi alla pompa è semplice: questo è un periodo di guerra e di pericolo globale. Riducete il prezzo alla pompa per riflettere il costo che state pagando per il prodotto. E fatelo ora”.

Questo il tweet di Biden sabato scorso. “Ci stiamo lavorando, signor presidente. Nel frattempo, buon 4 luglio e, per favore, si assicuri che lo stagista della Casa Bianca che ha pubblicato questo tweet si iscriva a Econ 101 (il corso base di economia, ndr) per il semestre autunnale”, ha risposto con sarcasmo la US Oil & Gas Association.

Lo schiaffo di Bezos…

Domenica il sonoro schiaffone di uno degli uomini più influenti d’America, Jeff Bezos: “Ahi. L’inflazione è un problema troppo importante perché la Casa Bianca continui a fare dichiarazioni come questa”. Si tratta “o di una distrazione o di una incomprensione di fondo delle dinamiche di base del mercato“, ha twittato il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post.

… e quello del WSJ

Ieri ancora più duro il board del Wall Street Journal, tornato sul tweet con un editoriale intitolato “Bidenomics 101”, anche qui giocando con il nome del corso base di economia.

Ma il quotidiano finanziario è tutt’altro che ironico, è dannatamente serio: “I leader del business hanno attribuito al cinismo politico gli attacchi del presidente Biden alle compagnie petrolifere, ma forse sono troppo generosi”. “Il presidente sembra non sapere nulla di come funziona l’economia privata“.

La maggior parte delle stazioni di servizio, spiega il WSJ, guadagnano “pochi centesimi a gallone”, stanno in piedi principalmente vendendo snack e sigarette e l’aumento dei prezzi danneggia anche loro, riducendo le fermate e gli acquisti degli automobilisti.

In nome della transizione green

Quello che è chiaro a tutti è che l’amministrazione Biden non ha soluzioni, le resta solo un penoso scaricabarile. Già patetico incolpare Putin, ancora più ignobile ora chiamare in causa una industria a cui è stato deliberatamente impedito di investire e operare.

Come mai gli attuali prezzi così elevati del petrolio e dei carburanti non si traducono in un aumento delle capacità di produzione e raffinazione? Il motivo è semplice: il presidente Biden lo ha attivamente impedito da quando è entrato in carica in nome della lotta ai cambiamenti climatici.

L’amministrazione non ha alcuna intenzione di rinunciare alla transizione dalle fonti fossili. Un’industria che in campagna elettorale l’attuale inquilino della Casa Bianca aveva promesso di far chiudere (“I guarantee you, we’re going to end fossil fuel”).

I progetti bloccati da Biden

E in effetti, nelle sue prime ore alla Casa Bianca, Biden ha cancellato il progetto di oleodotto Keystone XL, che avrebbe portato circa 800 mila di barili di petrolio al giorno dal Canada alle raffinerie del Texas, e “sospeso” tutti i contratti di locazione di petrolio e gas sui terreni federali.

A maggio, nonostante i prezzi già in salita, il Dipartimento degli Interni di Biden ha bloccato una proposta di concessioni per la perforazione di petrolio e gas su più di un milione di acri di terra in Alaska. Due giorni dopo, l’Agenzia per la protezione ambientale ha bloccato i piani per espandere una raffineria di petrolio nelle Isole Vergini.

Perché una compagnia petrolifera o un grande fondo dovrebbero investire nella capacità di raffinazione sapendo che da qui a pochi anni il governo federale chiuderà il settore?

Al recente G7 in Germania, in un fuori onda si sente il presidente francese Emmanuel Macron avvertire Biden che non può contare sull’Arabia Saudita e sugli Emirati Arabi Uniti per un aumento della produzione di petrolio, intendendo che devono essere gli Stati Uniti a produrre di più.

Meno dazi sulle merci cinesi

Ora, nel disperato tentativo di porre un freno all’inflazione, Biden sembra intenzionato ad alleggerire i dazi sui prodotti cinesi introdotti dall’amministrazione Trump.

Un colloquio virtuale definito “costruttivo” si è tenuto ieri tra il segretario al Tesoro Janet Yellen e il vicepremier cinese Liu He, che hanno concordato di coordinare meglio le politiche macroeconomiche, inclusa la questione dei dazi.

La Cina ha espresso preoccupazione per le tariffe aggiuntive imposte dalla precedente amministrazione Usa, in uno scambio “pragmatico e franco”, ha spiegato il Ministero del commercio in una nota. Da parte sua Yellen ha in modo “franco” sollevato preoccupazioni per l’impatto sull’economia globale della guerra russa contro l’Ucraina e sulle pratiche commerciali scorrette da parte di Pechino.

Come riportato nei giorni scorsi dal Wall Street Journal, la Casa Bianca sta valutando un allentamento dei dazi per raffreddare l’inflazione, ma ci sono divergenze sul punto all’interno dell’amministrazione. La Yellen ha affermato che alcune tariffe ereditate dall’amministrazione Trump “non avevano senso strategico”.

A fronte di un beneficio minimo, anche questa mossa rischia di inviare un messaggio di debolezza a Pechino e aumentare la dipendenza Usa dall’export cinese, mentre siamo ormai in una nuova Guerra Fredda in cui Cina e Russia stanno facendo leva proprio sulle materie prime e sulle catene di approvvigionamento per danneggiare le economie occidentali.

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