Era appena iniziata la tragica contabilità dei caduti della strage al Crocus City Hall di Krasnogorsk, vicino a Mosca, che inquirenti, servizi e commentatori vari, in ogni parte del mondo hanno cominciato ad interrogarsi sulla natura di questo attentato. Dopo i primi momenti di sgomento, nei quali si sospettava una matrice che riconducesse il gesto al conflitto con l’Ucraina, ecco apparire altre e più credibili prospettive. Fin da subito i servizi segreti degli Stati Uniti hanno sostenuto che la responsabilità del gesto era dell’Isis-K. Di seguito lo Stato Islamico stesso ha rivendicato la responsabilità dell’attacco (gruppo di fuoco composto da quattro unità) con un comunicato su Telegram dell’agenzia Amaq, collegata al gruppo.
Dopo poche ore i servizi russi fermano quattro tagiki, dei quali sono circolate le immagini, sospettati di essere i responsabili dell’attacco. Pare, inoltre, che questi figuri avessero – non meglio precisati – collegamenti con l’Ucraina. Questi i fatti. Sorprende, ma non troppo, che l’FSB, lasciatosi trovare completamente impreparato dall’attacco, nonostante gli ammonimenti americani, sia stato in grado, in pochissime ore, di fermare i colpevoli ed averne individuato collegamenti con il nemico di Kyiv.
Le minoranze islamiche
Da qui si sviluppano differenti letture e narrazioni dell’attentato. Che le masse islamiche presenti nell’immenso territorio russo costituiscano una fonte di problemi per Mosca è noto dai tempi dell’Unione Sovietica. Anche se la secessione del 1991 delle repubbliche sovietiche con prevalenza di popolazione musulmana ha costituito una certa valvola di sfogo, le minoranze “islamiche” che in alcune zone (Daghestan, Cecenia ad esempio) costituiscono maggioranza, grazie anche ad un incremento demografico in assoluta controtendenza con la generale crisi di natalità russa, possono creare variabili significative all’interno dell’immenso territorio che, un po’ superficialmente, chiamiamo Russia.
È infatti noto che per la “sua” operazione militare speciale Vladimir Putin – ben prima di questo attentato – ha rallentato l’arruolamento nel Daghestan, che nei primi giorni del conflitto aveva fornito un alto numero di uomini, ma che – a causa del numero di caduti – fu teatro di numerose manifestazioni di protesta e di qualche attentato nei centri di arruolamento.
Pare inoltre che Kadyrov – indiscusso satrapo della Cecenia – abbia minacciato un certo disimpegno dallo sforzo bellico dei suoi territori se Mosca avesse rivisto al ribasso il sostegno economico alla Repubblica cecena. Che il messaggio messianico insito nell’islam con l’esaltazione della Umma – comunità religiosa e politica – dei credenti mal si concili con le prospettive imperiali russe che dai tempi di Pietro giungono, quasi senza soluzione di continuità, fino ad oggi è cosa fin troppo nota. Purtroppo le ossessioni politiche di Putin costituiscono un presupposto allo sviluppo di un fronte interno che potrebbe minare la stessa esistenza dello stato federale.
Credibilità ferita
Questo attentato, unitamente alle operazioni stay behind di milizie russe filo ucraine a Belgorod e Kursk, sta a dimostrare che la Russia, esasperatamente impegnata a prestare attenzione alle operazioni sulla linea del fronte, sia vulnerabile proprio al suo interno. Questo potrebbe non essere un bel segnale per Putin.
Già all’inizio degli anni Duemila, Putin ha costruito una non trascurabile parte del suo potere personale sul fatto che fosse l’uomo che aveva promesso e mantenuto l’impegno di sradicare il terrorismo in Russia, liquidando il problema ceceno ma non solo. Non vi è dubbio che la sua popolarità sulla nazione russa sia reale, nonostante le elezioni “tarocche” abbiano registrato ben più di un vulnus di effettiva democraticità. Questo però non importa. Nella sua secolare storia, la Russia non ha mai vissuto reali momenti di democraticità, se non negli anni della decadenza eltsiniana.
Si deve tener conto che in qualunque regime politico il potere esecutivo è sottoposto alla verifica della performance da parte dal depositario della sovranità (formale o sostanziale che sia). In un regime “liberale”, una prestazione ritenuta insufficiente viene punita dall’opinione pubblica con manifestazioni di dissenso o, eventualmente, con un voto punitivo. Da qui un “sereno” cambio dell’esecutivo, così come è previsto dalla logica, prima ancora che dalla carta, del confronto tra forze politiche democratiche.
In un regime autoritario o semi autoritario il potere centrale, di norma identificato con una personalità forte, revoca, hobbesianamente, al formale depositario della sovranità (il popolo) grandi spazi di libertà e di autodeterminazione, creando una omogeneizzazione degli interessi nazionali, garantendo, però, una tutela nei suoi confronti soprattutto in ambito di sicurezza e di standard minimi di benessere. Se l’autocrate viene meno a questa promessa, cioè entra in una crisi di prestazione, la sua stessa esistenza viene messa in discussione.
Sotto questo punto di vista l’attentato di Mosca è una ferita alla credibilità di Putin che risponde esponendo, nel giro di 15 ore, i volti dei presunti colpevoli al pubblico ludibrio. Quale sarà la prossima mossa dell’autocrate? Vi sono pochi dubbi: un maggior impegno nel conflitto con la testarda Ucraina, soprattutto sul fronte di Kharkiv.
Che un regime in difficoltà sfoghi verso l’esterno eventuali problemi interni è cosa antica e sempre praticata. Per restare nell’ambito della storia russa basti ricordare come la guerra russo giapponese del 1904 fosse stata pensata, a San Pietroburgo, come opportuna a sedare il malcontento interno. L’inaspettata sconfitta a Tsushima fu un boomerang che portò alla rivoluzione del 1905.
All’orizzonte non pare esservi un ammiraglio Togo, ma la necessità di Putin di schiacciare ogni forma di resistenza comincia ad essere urgente. Questo è lo scenario più evidente. Però (vi è sempre un però) non vi sono letture alternative?
Una lettura alternativa
Sir Winston Spencer Churchill ebbe a dire: “La Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”.
Chi ricorda la crisi del teatro Dubrovka a Mosca (23-26 ottobre 2002)? Un gruppo di 40 separatisti ceceni sequestrò 850 civili. Un “goffo” intervento delle forze speciali portò alla morte di 39 sequestratori (i morti non parlano) e di 129 ostaggi. Questo episodio portò ad un drastico inasprimento della Seconda Guerra Cecena da parte delle forze russe.
Questa crisi, i conseguenti crimini russi in Cecenia e la condotta politica di Putin furono oggetto della famosa inchiesta di Anna Politkovskaja che – guarda caso – venne uccisa il 7 ottobre 2006, pochi giorni prima di pubblicare su Novaja Gazeta il suo reportage. Da quella data il “democratico” Putin fu sempre meno tale.
Sarebbe così “impensabile” ipotizzare che l’attentato al Crocus City Hall possa diventare una freccia all’arco di Putin, ormai irrimediabilmente lanciato verso l’autocrazia? I precedenti non mancano: nel 1926, dopo il fallito attentato di Zamboni al Duce il governo italiano varò un duro giro di vite con la promulgazione delle “Leggi per la difesa dello Stato“. Si diede il via alla dittatura.
Solo dopo l’incendio del Reichstag del marzo 1933, il presidente tedesco maresciallo Paul von Hinderburg venne spinto a firmare un decreto che aboliva la maggior parte dei diritti civili forniti dalla costituzione del 1919; giusto per restare in Russia, dopo l’assassinio di Kirov, nel quale Robert Conquest vide un coinvolgimento di Stalin, si diede il via alla stagione dei processi e delle purghe.
Coinvolto o no in questo attentato, Putin – che ha davanti a sé sei anni di potere indiscusso – agirà con mano pesantissima sia sul fronte interno, soffocando ogni residua libertà di espressione ed azione da parte dei “sudditi”, sia sul fronte militare.