“Aspettare venerdì”, questo il mantra del premier socialista uscente Pedro Sanchez, che rispondeva così a chiunque gli chiedesse conto circa la sua disponibilità di sedersi per un confronto con lo sfidante popolare Nunez Feijò.
Sull’onda dell’entusiasmo post-23 luglio, che ha visto una tenuta dei socialisti, nel quartier generale del PSOE serpeggiava la convinzione che, dopo il conteggio dei voti degli spagnoli all’estero, avrebbe guadagnato seggi ulteriori fondamentali per la permanenza di Pedro Sanchez alla Moncloa.
Pareggio in extremis
Infatti, a differenza di quanto avviene in Italia, i voti inviati dai cittadini all’estero si sommano a quelli dei voti dei residenti in Spagna. Risultato: alcuni seggi assegnati provvisoriamente ad un partito possono così essere “rubati” in extremis da un altro partito. Di questo erano convinti i socialisti, che per loro sfortuna non solo non hanno guadagnato nessun nuovo seggio, ma hanno perso quello della comunità di Madrid, soffiato dal PP, fortissimo nella regione della capitale.
Con questi ultimi voti, il bilancio definitivo vede il PP salire ad un totale di 137 deputati che, sommati a quelli di Vox e a quello di UPN, già espresso in favore di Feijò, portano il totale della coalizione conservatrice a 171, solo 5 in meno della maggioranza assoluta. Per il resto, sommando i seggi di PSOE, Sumar, ERC, EH Bildu, PNV e BNG la coalizione progressista si fermerebbe a 171. Un pareggio.
Strada in salita
Tuttavia, se le speranze del premier socialista di rimanere per un terzo mandato erano abbastanza buone all’indomani 23 luglio, adesso la strada appare in salita. Infatti, in Spagna per entrare in carica un governo necessita della maggioranza assoluta in prima votazione (176), mentre in seconda votazione è sufficiente la maggioranza relativa.
Dunque, se prima del conteggio del voto estero a Sanchez bastava un astensione di Junts, il partito secessionista catalano che fa riferimento all’ex presidente Carles Puigdemont, nei confronti del quale la Corte suprema spagnola ha da poco emesso un mandato di arresto, adesso per restare alla Moncloa il premier socialista avrebbe bisogno del sostegno da parte di almeno due dei deputati di Junts.
Tre opzioni
Ciò premesso, le opzioni di Sanchez adesso si riducono a tre: scendere a patti con Puigdemont, facendo concessioni non di poco conto, rinunciare ad una sua investitura, o rischiare il tutto per tutto e scommettere sul ritorno alle urne in autunno, ipotesi scartata con spavalderia il 24 luglio quando era convinto che il voto estero lo avrebbe favorito.
Tuttavia, nonostante la doccia fredda dell’altra sera, la speranza di formare un terzo governo Sanchez rimane viva all’interno della coalizione di sinistra. La leader di Sumar, Yolanda Diaz, partito che ha riunito la sinistra radicale spagnola, in un’intervista rilasciata a Repubblica si dice sicura che la Spagna avrà un governo progressista.
Se la formazione di un governo progressista è un’aspettativa del tutto legittima, chiedersi con quali voti la signora Diaz abbia intenzione farlo è un dovere. A meno che adesso non si voglia ritenere progressista un partito apertamente secessionista che pone come condizioni al suo sostegno al governo l’amnistia per Puigdemont, attualmente rifugiato in Belgio. Ma in capriole di questo genere la sinistra, si sa, è campione del mondo.