Esteri

In Argentina il “fascista” è Massa, non Milei: un libertario contro un peronista

Altro che “ultra-destra”, Milei manda in tilt i media e smaschera gli “esperti”. Per una volta non due sfumature di statalismo, ma due visioni agli antipodi

Milei Massa Javier Milei e Sergio Massa durante un dibattito tv

Mai come in Argentina, dopo il primo turno delle presidenziali, per il voto del ballottaggio del 19 novembre prossimo ci si avvia a elezioni in cui il bianco e il nero sono così ben distinti. Si contrappongono due filosofie politiche ed economiche agli antipodi. Non ci sarà uno dei soliti scontri fra due diverse sfumature di statalismo, bensì uno fra un teorico dello statalismo purissimo e uno del libero mercato senza compromessi. Uno è di matrice fascista, l’altro è un libertario di scuola austriaca.

Ma indovinate chi viene definito come “ultra-destra”? Non il peronista Sergio Massa, ma il libertario di scuola austriaca Javier Milei che vuole limitare il potere dello Stato ai minimi termini.

Le categorie sballate dei media

Ci sarebbe da aprire un capitolo sulla voluta ignoranza nelle definizioni dei media, italiani e non. Con Milei lo abbiamo già visto (anche su queste colonne): non appena si è palesato sulla scena nazionale argentina ha subito un processo di demonizzazione, anche personale. Adesso si aggiunge la curiosità del vederlo definito come candidato dell’ultra-destra, per distinguerlo dal centrodestra della candidata, eliminata al primo turno, Patricia Bullrich.

Quindi, secondo la geografia dei partiti di quasi tutte le redazioni, il libertarismo si colloca alla destra del conservatorismo. Sarà a causa della classica storiografia antifascista, secondo cui il regime fascista (di matrice chiaramente socialista) era emanazione del capitalismo. Oppure semplicemente perché Milei è volgare nel modo di esprimersi, sfodera la motosega ogni volta che tiene un comizio (per tagliare simbolicamente la spesa pubblica, non le teste degli interlocutori) e quindi “non può che essere” fascista.

È forse inutile ricordare ancora una volta che il fascismo è una dottrina per cui “tutto è nello Stato e per lo Stato”, non è fascista chi vuole semmai ridurre lo Stato ai minimi termini, abolendo, come vuol fare Milei, anche i ministeri non necessari.

Il fascista è colui che vuole una banca nazionale, perché crede che sia la politica a decidere se stampare o meno moneta e a determinare il valore del denaro. Milei, all’opposto, ritiene che la banca centrale debba essere addirittura abolita. Vuole dollarizzare completamente il peso argentino, non perché abbia una fiducia cieca nella Fed, ma se non altro per sottrarre la politica monetaria dalle mani degli ingordi peronisti argentini.

Queste sono le categorie scelte dai media per ignoranza (voluta o meno) delle dottrine politiche ed economiche che si stanno confrontando in Argentina. Ma quel che dovremmo temere ancora maggiormente è il parere di chi ignorante non è, sa quale sia la posta in gioco e promuove scientemente una visione economica socialista contro il mercato.

Gli “esperti” per il peronista Massa

Fra questi esperti troviamo l’immancabile editoriale dell’Economist: dopo una raffinata analisi del disastro economico provocato dal peronismo, giunge a conclusioni quali:

Gli economisti temono che la sua sbandierata politica di dollarizzazione comporti molti rischi, anche perché le riserve nette della banca centrale argentina sono in rosso per 5 miliardi di dollari (sic!) e il Paese non può facilmente prendere in prestito dollari. La dollarizzazione significherebbe lo scambio di tutti i pesos in circolazione più quelli detenuti nelle banche, cosa che secondo le stime del team di Milei richiederà tra i 40 e i 90 miliardi di dollari (il Pil è di 630 miliardi di dollari). La politica potrebbe rappresentare una soluzione rapida all’inflazione, ma potrebbe non risolvere il problema di fondo dell’elevata spesa pubblica.

Sì, ma almeno l’inflazione verrebbe affrontata. Quanto alla spesa pubblica, Milei è l’unico che promette di tagliarla (con la sua iconica motosega) e quindi qual è il problema? Con questo tipico atteggiamento da “ci vuole ben altro”, l’Economist prende le distanze dal candidato che pure dovrebbe lodare. Perché è “socialmente squalificante”?

Secondo altri esperti citati ieri dal Corriere della Sera, come Peter Coy, del New York Times, è la politica monetaria rigorosa di Milei a costituire il problema:

Dollarizzare l’economia è come mettersi le manette e poi buttare via la chiave. È un atto di disperazione quando nient’altro funziona. E come la maggior parte degli atti disperati, presenta grossi inconvenienti. Passando al dollaro, l’Argentina adotterebbe di fatto la politica monetaria degli Stati Uniti, perdendo così la capacità di alzare o abbassare i tassi di interesse per adattarsi alle condizioni locali. Perderebbe il profitto noto come signoraggio che deriva dallo stampare moneta.

In estrema sintesi, Coy vuole che lo Stato continui a lucrare sulla produzione arbitraria di moneta e crede che la politica possa determinarne il valore, attraverso la leva del tasso di interesse. Non muove neppure la giusta critica che pure accenna (dipendere dalla politica economica della Fed, a sua volta governata da socialisti). No: suggerirebbe ancora più potere arbitrario sulla moneta. Non capendo che è proprio questa la causa del disastro argentino: la diffusa e sbagliata convinzione di aiutare la gente stampando carta e chiamandola moneta.

Consulenti e agenzie di rating

Il problema vero è che queste analisi, in cui si legge chiaramente lo sforzo di giudicare negativamente il programma libertario di Milei, potrebbero essere condivise anche dai grandi operatori del mercato. Non tanto fra gli imprenditori, che magari hanno conservato un po’ di senso pratico (e sanno che meno spesa, meno tasse e più stabilità monetaria è una politica che aiuta i loro affari), ma fra i loro maggiori consiglieri.

Il grande mondo delle consulenze e delle agenzie di rating, condizionato più che mai dalle dottrine economiche che vanno di moda, dunque a cavallo fra Keynes e Greta. Sono loro quelli capaci di bocciare, per motivi ideologici, il più grande amico del libero mercato, proprio perché è amico del libero mercato. E provocare una fuga di capitali da uno Stato dimagrito, proprio perché li dovrebbe naturalmente attrarre.

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