In Iran un presidente “riformista”, ma come sempre non significa riforme

Eletto Masoud Pezeshkian, ma nessun presidente è mai stato determinante nel processo decisionale del sistema politico iraniano. Affluenza bassa

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Un “riformista” è il nuovo presidente dell’Iran? Ci saranno cambiamenti nella politica interna ed estera della Repubblica islamica? Il popolo iraniano ha dato due risposte a questa domanda: chi ha creduto in un cambiamento è andato a votare; coloro che si sono astenuti al primo e al secondo turno delle votazioni sono invece conviti che con un nuovo presidente nulla cambierà, finché sarà in vigore la dottrina del velayat-e faqih, il governo del giureconsulto che dalla Rivoluzione del 1979 trasferisce tutta l’autorità politica e religiosa al clero sciita.

Anche il nuovo presidente, il settantenne Masoud Pezeshkian, sostenuto dai riformisti, per candidarsi è dovuto passare al rigoroso vaglio del Consiglio dei Guardiani che valuta i candidati sulla base di criteri religiosi e politici. Solo a sei candidati, dei 74 aspiranti (tra i quali quattro donne), è stato permesso di partecipare alle elezioni presidenziali. Tra i candidati respinti spiccavano i nomi di Mahmoud Ahmadinejad e Ali Ardeshir Larijani.

Inoltre, il passo indietro di Ghazideh Hashemi e Alireza Zakani hanno lasciato in gara tre figure chiave: Mohammad Bagher Ghalibaf, Saeed Jalili e il cardiochirurgo Masoud Pezeshkian. Ghalibaf, speaker parlamentare ed ex capo della polizia, era considerato il candidato più forte nonostante accuse di corruzione. Jalili, conservatore del Fronte di Stabilità della Rivoluzione Islamica, ha tentato più volte di correre per la presidenza e aveva una forte base di supporto tra i conservatori tradizionalisti, come il Fronte Paydari.

Bassa affluenza

Il primo turno elettorale non ha visto nessun candidato ottenere la maggioranza assoluta, portando a un ballottaggio tra Saeed Jalili e Masoud Pezeshkian, avvenuto il 5 luglio, e finito a mezzanotte (ora locale) dopo due proroghe: le urne avrebbero dovuto chiudersi alle 20, ma – vista la bassa affluenza – si è deciso di tenerle aperte fino alle 22, per poi concedere ancora due ore.

In un recente discorso, l’ayatollah Alì Khamenei aveva fatto più volte appello al voto, come se l’affluenza alle urne fosse più importante dell’identità del presidente eletto. Questo potrebbe spiegare la decisione di aver ammesso un candidato “riformista”, di etnia turco-azera, alle elezioni.

Un’alta affluenza alle urne è considerata da Khamenei la misura della sua immagine e della Repubblica islamica. Non poteva permettere che gli si presentasse lo stesso scenario delle elezioni dello scorso marzo, quando solamente il 41% della popolazione si è recato alle urne per eleggere i 290 deputati del Parlamento, ormai dominato dai conservatori, e gli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, l’organismo incaricato di eleggere la Guida Suprema della Repubblica islamica.

Invece, anche durante il primo turno delle elezioni dell’8 luglio è stata registrata una bassa affluenza. La più bassa dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista. Solo il 39,9% dei 61,45 milioni di elettori si è recato alle urne. Il secondo turno ha visto un’affluenza leggermente migliore ma comunque limitata al 49%.

Un candidato “riformista”, debole, è stata una piccola apertura per rendere il voto più competitivo che avrebbe aiutato l’affluenza alle urne. Inoltre, il regime ha fornito 20 GB di dati Internet gratuiti da utilizzare sui messenger nazionali e su Telewebion per 30 giorni sui telefoni cellulari per promuovere le informazioni sulle elezioni.

Dopo la bassa affluenza del primo turno, agli studenti di Qom è stata data una settimana di vacanze per permettergli di votare, mentre i dipendenti di alcune aziende sono stati pressati, se non costretti, a recarsi a votare. “Per paura di ritorsioni”, riferiscono alcuni media iraniani che hanno intervistato proprietari e lavoratori di piccole e medie aziende. Noi ci crediamo.

Il ballottaggio

La maggioranza degli iraniani, inclusi molti prigionieri politici (gli è consentito di votare) e attivisti, hanno deciso di non legittimare l’attuale establishment. Anche fuori dal Paese. In Australia, le elezioni sono state annullate a Brisbane e Sydney a causa delle proteste della diaspora iraniana. L’amministrazione Biden è stata criticata dagli oppositori del governo iraniano, che avevano richiesto un boicottaggio delle elezioni, per aver consentito l’installazione di seggi elettorali negli Stati Uniti. Arabia Saudita e Canada hanno rifiutato di permettere all’Iran di installare urne elettorali all’estero, sebbene in seguito l’Arabia Saudita abbia annullato questa decisione.

Anzi, il Regno saudita è stato tra le prime nazioni – Russia, Cina, Siria – a fare gli auguri al nono presidente della Repubblica islamica dell’Iran che ha ottenuto oltre 16 milioni di voti, mentre più di 13 milioni voti sono andati allo sfidante Saeed Jalili.

Il ballottaggio tra Jalili e Pezeshkian ha messo in luce le loro differenze su vari temi, come si è visto lunedì, durante un faccia a faccia televisivo. In economia, Jalili ha sostenuto l’autosufficienza, mentre Pezeshkian ha proposto di ridurre le tensioni con l’Occidente per stimolare la crescita. Jalili ha mantenuto una linea dura contro l’Occidente, rifiutando ulteriori negoziati, mentre Pezeshkian ha cercato un approccio più diplomatico, puntando a riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti.

Sul tema dell’hijab, Pezeshkian si è opposto alla polizia morale e ha difeso la libertà delle donne, mentre Jalili ha visto l’hijab come “simbolo della presenza sociale femminile. La civiltà occidentale è giunta a un punto morto nell’affrontare le questioni femminili”. Pezeshkian ha anche proposto di insegnare l’uguaglianza fin dall’infanzia, mentre Jalili ha enfatizzato il valore delle donne e il rafforzamento delle famiglie.

Poche speranze

Dunque, l’esito delle elezioni influenzerà la politica interna iraniana e avrà ripercussioni significative sulle relazioni internazionali del Paese?

Nessun presidente è mai stato determinante nel processo decisionale nel sistema politico iraniano, perché basato sulla dottrina del velayat i faqih. Ci sono poche speranze che Pezeshkian, ex ministro della sanità sotto Khatami, tracci un solco – non un tweet – sul sentiero del riformismo.

Le scelte fatte dagli elettori iraniani determineranno se l’Iran continuerà su una strada di isolamento e autodifesa o se cercherà nuove opportunità di riforme e di dialogo, soprattutto con l’Occidente. Ma bisognerà aspettare anche l’esito delle elezioni statunitensi. Intento l’Iran continua nel “Look to The East”. Questa settimana, Mosca e Teheran hanno firmato il loro primo accordo monetario bilaterale per rafforzare i legami finanziari ed economici (non solo droni) e contrastare l’impatto delle sanzioni statunitensi. E Mehdi Sanei, ex ambasciatore a Mosca, è il secondo consigliere di politica estera di Pezeshkian, il nuovo presidente delle Repubblica islamica.

Per tutto ciò gli astenuti sono la maggioranza. Né conservatori, né moderati, né riformisti. Realisti.

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