Esteri

In quale campo gioca Erdogan? Un “alleato” sempre più inaffidabile

Dai rapporti con Mosca al conflitto tra azeri e armeni, tutte le ambiguità e le giravolte del Sultano, che ora è preoccupato di una sola cosa: farsi rieleggere

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La Turchia ha un presidente, Recep Tayyip Erdogan, che quasi ogni giorno fa di tutto per portare l’attenzione del mondo verso la sua persona.

Dopo aver dichiarato di avere “l’impressione” che il presidente russo Vladimir Putin sia disposto a mettere fine alla guerra e preteso di aver agito ancora una volta come intermediario tra Mosca e Kiev, favorendo lo scambio di 200 prigionieri di guerra tra i due Paesi, ha lanciato un pesante monito alla Russia, come non aveva mai fatto dall’inizio del conflitto: “Deve ritirarsi da tutti i territori ucraini occupati, Crimea compresa”.

Tutto questo “dimenticandosi” di non aver mai applicato le sanzioni che tutto l’Occidente ha implementato quale reazione alla guerra intrapresa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina.

Questo è solo il primo esempio di come il presidente turco sembra oggi una manica a vento, o meglio una barca in mezzo ad una tempesta. Va da una parte all’altra senza una logica e non fa capire bene cosa abbia in mente realmente.

La richiesta di aderire alla SCO

Per iniziare, c’è l’incredibile richiesta di aderire alla Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO), una sorta di alleanza asiatica anti-occidentale voluta dalla Cina Popolare e di cui fanno parte 9 Stati, tra cui la Russia.

La proposta turca sarebbe stata avanzata al termine del vertice di Samarcanda e dalla Germania arriva notizia che il capogruppo parlamentare dei Verdi tedeschi (partito di governo) abbia chiesto sanzioni contro Ankara.

Letto quanto precede, atteso che la Turchia è un Paese membro della Nato, sembrerebbe che si stia parlando di una delle famose “fake news” che girano in rete. Non è così. Erdogan agirebbe qui con lucidità per portare a casa il massimo tornaconto possibile.

Nel 2023 si vota

Dietro a tutto questo suo apparente attivismo contraddittorio ci sono le elezioni turche del prossimo giugno 2023.

A meno di brogli elettorali – che non sono da escludersi, conoscendo quanto il “dittatore” turco (definizione a suo tempo attribuitagli dal presidente Draghi) è riuscito a far credere in occasione del finto golpe del 2016 (chi conosce l’efficienza delle forze armate turche sa che se lo avessero veramente organizzato loro il golpe, lo stesso sarebbe sicuramente riuscito, evitando la prigionia a tantissimi magistrati, militari e giornalisti che non si erano allineati), Erdogan rischia di non essere rieletto.

Per questi motivi vuole mostrarsi al suo popolo come uomo forte e impegnato su tutti i fronti per salvaguardare l’interesse nazionale.

Gioco al rialzo con Washington

L’annuncio che la Turchia avrebbe chiesto la piena affiliazione alla SCO mette in evidenza l’usuale gioco al rialzo che il presidente turco attua quando cerca di ottenere qualcosa da Washington: in queste settimane ha bisogno di aggiornare la tecnologia degli aerei da combattimento, a suo tempo acquistati dagli Usa ma bloccati dal Congresso.

Ma un Paese Nato non potrebbe mai entrare in quell’organizzazione e vediamo che queste dichiarazioni a Samarcanda, dove ha partecipato come invitato esterno, sono uscite proprio quando al presidente turco è stato negato un incontro con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Washington, dopo la sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si sta tenendo in questi giorni.

Biden non ha voluto neanche farlo entrare nella stanza ovale e questo per il presidente turco rappresenta una “porta in faccia” storica.

Proprio in questi giorni, Washington ha tolto l’embargo di armi imposto su tutto il territorio cipriota nel 1987. Questo vuol dire che adesso i greco-ciprioti possono comprare armi anti-aeree da Israele e da altri Paesi.

La decisione americana è stata fermamente condannata dalla Turchia, che occupa illegalmente e controlla militarmente la parte settentrionale dell’isola, dove si trova la autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord.

La dipendenza da Mosca

Sulla questione ucraina, come scritto, Erdogan si è finalmente sbilanciato (come mai prima) dichiarando che la Russia deve ritirarsi non solo dal Donbass ma anche dalla Crimea. Altra affermazione quantomeno contraddittoria, parole al vento, perché mentre chiede il ritiro russo Ankara non ha mai applicato sanzioni, neanche nel 2014, contro la Russia.

Evidentemente cerca di passare come “atlantista”, ma resta il fatto che la Russia ha concesso alla Turchia il diritto di bonificare almeno 6 miliardi di dollari per i pagamenti del gas in rubli e, al contempo, ha iniziato a investire in lire turche.

La Banca centrale russa ha fatto sapere che il Russian National Wealth Fund investirà nelle valute di Cina Popolare, India e Turchia: “il Ministero delle finanze russo sta lavorando sugli investimenti nelle valute dei Paesi amici (yuan, rupia e lira turca) al fine di creare un meccanismo di regole di bilancio e rinnovare il Fondo nazionale di ricchezza”.

Basterebbe questo per capire che non si può più credere alle parole del presidente turco.

Ankara non potrà mai schierarsi del tutto contro Mosca. La Turchia infatti dipende dal gas russo per circa il 40 per cento, dal petrolio per il 20 per cento, per buona parte del suo approvvigionamento di cereali (questo spiega l’attivismo turco nello “sbloccare” il porto di Odessa). Inoltre, buona parte del flusso turistico russo che questa estate non si è potuto dirigere verso il Mediterraneo centrale si è indirizzato, con il suo business correlato, verso le coste turche.

Se fosse indispettita da Ankara, Mosca ci metterebbe cinque minuti a chiudere ogni fonte di energia e alimentare mettendo il Paese, la cui economia attraversa una crisi importante, in ginocchio.

La questione curdo-siriana

La Turchia, inoltre, è in impegnata anche in Siria, dove continua ad attaccare i membri del Fronte Democratico Curdo, e non cessa la sua persecuzione nei confronti dei curdi, confondendo volutamente terrorismo e patriottismo.

Il conflitto tra Armenia e Azerbaijan

La scorsa settimana si è riaperto (con decine di morti) il conflitto tra Armenia e Azerbaijan. Erevan e Baku si accusano reciprocamente della prima azione offensiva e si giustificano sostenendo di avere risposto a provocazioni. Parrebbe però che gli azeri abbiano attaccato lanciando bombardamenti intensivi e utilizzando i micidiali droni turchi Bayraktar (gli stessi venduti da Erdogan all’Ucraina).

Il premier armeno Pashinyan ha chiesto formalmente a Mosca di far scattare il soccorso militare previsto dall’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, un‘alleanza (simile a quella della Nato) che comprende i molti Paesi collegati alla Russia, e l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

A far salire la tensione ci ha pensato un altro Paese il cui comportamento in ambito internazionale non lascia sereni, l’Iran, vicino di casa di entrambi i contendenti, che ha fatto sapere che non consentirà alcun cambiamento dei confini.

Contemporaneamente il ministro della difesa turco si è affrettato, contro ogni evidenza, a dichiarare che Ankara continuerà a supportare i fratelli dell’Azerbaijan che “sono nel giusto”. La Russia chiede di “dare prova di moderazione e rispettare un cessate il fuoco”, ma non è un caso che i combattimenti siano ripresi nei giorni in cui le forze armate russe sembrerebbero in difficoltà in Ucraina.

Impossibile ipotizzare che gli azeri abbiano aggredito gli armeni senza l’appoggio e l’approvazione di Erdogan che, in realtà, deve aver pensato di approfittare del fatto che i russi (vicini alla causa armena) stanno affrontando un momento critico in Ucraina.

Siglata una nuova dichiarazione di cessate il fuoco, ma se non ci sarà una presa di posizione forte della comunità internazionale contro l’aggressione dell’Azerbaijan può accadere di tutto e non c’è alcuna certezza che i combattimenti si fermino.

L’Armenia, data la sua posizione geografica, appare un ostacolo all’espansionismo della Turchia verso l’Asia centrale ma non va sottovalutato che a luglio la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha firmato in Azerbaijan un accordo per aumentare la fornitura di gas azero all’Europa.

Come noto l’Azerbaijan è ricchissimo di gas naturale ma, purtroppo, è governato da una dittatura supportata da Ankara. I presidenti azero e turco sono simili e alleati, trarre le conclusioni è persino facile perché al momento il loro “modus operandi” appare identico.

La Libia

Infine, la Turchia si muove in Libia con l’obiettivo di superare lo stallo politico dovuto al fatto che attualmente nel Paese ci sono due governi. Da una parte il presidente Bashaga, nominato dal parlamento con sede a Tobruk , dall’altra l’ex presidente Abdelhamid Dabaiba che, però, non vuole muoversi da Tripoli.

Dabaiba, che ha assunto il ruolo sulla base di un incarico ad interim affidatogli dal processo politico-diplomatico onusiano che va sotto il nome di “Foro di dialogo politico libico”, sostiene che è legittimato a governare perché il suo mandato prevedeva le elezioni – presidenziali e parlamentari – che invece non si sono tenute.

Dabaiba punta anche sulle relazioni internazionali che è riuscito a costruirsi nella sua esperienza da capo del governo, tra queste soprattutto quella con la Turchia. Lo stallo è abbastanza preoccupante, perché alcune milizie tripoline hanno già mostrato i denti in difesa di Dabaiba e altrettanto quelle che sostengono Bashaga.

Se la Turchia dovesse spostarsi su Bashaga, allora su di lui si compirebbe un allineamento d’astri contro cui poco potrebbe Dabaiba. L’Egitto è infatti già della partita, e sono finiti – almeno apparentemente – i tempi in cui la Libia faceva da campo di scontro per procura nelle diatribe interne al sunnismo, tra Ankara, Cairo e Abu Dhabi.

C’è poi la variabile russa. Impelagata nella guerra in Ucraina, Mosca ha sul terreno uomini – i mercenari del Wagner Group – in grado di determinare gli equilibri in vario modo, dall’ambiente militare al warfare informativo. Ora pare che parte di questi lasceranno il Paese per andare a dar manforte al fronte del Donbass, ma è improbabile che il Cremlino voglia perdere del tutto le posizioni guadagnate in Libia.

Questa variabile potrebbe essere determinante per il futuro di Tripoli, perché Mosca ha sempre dimostrato in quella zona del mondo di aver capacità di sintesi con Ankara, sebbene su lati opposti di certe crisi. Ma i turchi sono una forza Nato e accordarsi con Ankara, durante la guerra in Ucraina, non dovrebbe essere cosa facile per Putin.

Conclusioni

Tratteggiato tutto questo è chiaro che definire la linea politico-strategica di Ankara è forse impossibile e mostrare di credere nelle dichiarazioni del presidente turco sarebbe un difficilissimo esercizio di diplomazia. In verità, l’unica cosa che a Erdogan interessa in questo momento sono le elezioni del prossimo anno, che deve vincere a ogni costo… e questo “ogni costo” preoccupa chi crede nella democrazia.

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