“Bisognava o tacere e comportarsi da codardi oppure dire le cose come stavano”. Così si è lamentato il generale russo Ivan Popov, comandante della 58° armata, dopo il suo licenziamento a metà luglio 2023. Aveva commesso l’errore fatale di parlare “coraggiosamente” ai suoi superiori circa lo stato disastroso delle linee del fronte nella Zaporizhzhya occupata. Due mesi dopo, a settembre, un altro ex ufficiale, Andrey Gurulev, ha denunciato una “cultura della menzogna” che ostacola la “vittoria” della Russia in Ucraina.
Come riportato già dieci anni fa dal Moscow Times, mentire è un “passatempo nazionale” in Russia, un’abitudine le cui radici sono riconducibili al sistema russo-sovietico che, per decenni, ha imposto meccanismi sociali tanto perfetti quanto perversi atti a punire la sincerità e ricompensare la menzogna.
Il retaggio morale sovietico
La tirannia comunista, infatti, ha premiato le condotte antisociali per così tanto tempo e in modo così radicale, da aver alterano il rapporto dei russi con la verità e con l’etica. La menzogna, così come il carcere duro, la defenestrazione, l’avvelenamento, la violenza a danno dei nemici, sono stati normalizzati a tal punto che, oggi, i russi possono compiere attacchi terroristici quotidiani contro l’Ucraina – bombardando teatri pieni di bambini, stazioni ferroviarie, fermate degli autobus, scuole e condomini – con appena un accenno di inquietudine morale.
L’invasione dell’Ucraina nel 2022 è l’ultima, dolorosa, testimonianza degli effetti della maligna appropriazione dell’anima umana da parte del comunismo. Forse, servirà anche a ricordare che questa ideologia, che si nutre di oppressione, saccheggio su larga scala e degrado sistematico dello spirito umano, non è stata debellata dopo il 1989, ma ancora infesta il mondo.
La spirale discendente della Russia verso un’abietta bancarotta morale può, senza dubbio, essere ricondotta direttamente alla violenta “ingegneria sociale” operata dai bolscevichi dopo il 1917. La guerra “proletaria” contro i “nemici della rivoluzione” e il successivo terrore, soprattutto staliniano, fissarono le condizioni di un nuovo codice di condotta.
Un modello di comportamento criminale radicato e organizzato, scatenato dagli appelli di Lenin alla violenza, perfezionato dall’indifferenza di Stalin alla sofferenza (compreso l’Holodomor ucraino del 1932-33), e ora portato alla sua conclusione autodistruttiva da Putin.
Morale capovolta
In un clima di moralità così capovolta, l’obbedienza stolida, il cinismo, la sordità etica, sono diventati qualità indispensabili per garantirsi una vita tranquilla. I russi sono invitati ad applaudire la maestria e l’abilità tecnica dei loro missili che colpiscono i civili a Kherson, ma non a interrogarsi sui motivi della guerra in atto.
Questo, forse, spiega perché, a dispetto di ogni ragione, così tanti russi sono diventati complici della realtà alternativa fabbricata dal Cremlino sul presunto “regime ucraino neonazista”. Dopotutto, nessuno è mai stato ricompensato per aver messo in discussione le autorità costituite, tanto meno per aver preso una posizione morale o di principio, come insegnano i cadaveri di Boris Nemtsov o Sergei Magnitskij, oppure Alexei Navalny dal suo esilio artico. Nella Russia contemporanea, come in quella sovietica, la ricerca della verità porta direttamente alla tomba.
Al centro dell’ingegneria antisociale marxista-leninista, che ha devastato la Russia per più di un secolo, si colloca una gretta filosofia nota come “materialismo dialettico”, che minimizza la moralità e il libero arbitrio, trasformando gli uomini in “materiale biologico” determinato dalle forze dell’economia e della politica.
Non ci sono individui, solo formiche obbedienti. Le uniche cose che contano sono gli esiti economici o militari. La moralità è inutile, solo i risultati hanno rilevanza. Pertanto, solo i metri di terreno guadagnati a Bakhmut o ad Avdiivka sono importanti, indipendentemente dal costo umano per ottenerli.
Vladimir Putin, durante un “incontro con le madri” altamente coreografico, nel novembre del 2022, disse alla madre di un invasore morto in Ucraina: “Alcune persone muoiono di vodka e le loro vite passano inosservate. Ma tuo figlio ha vissuto davvero e ha raggiunto il suo obiettivo. Non è morto invano”. In altre parole, nella Russia di oggi, la maggioranza dei servi usa e getta ha due sole possibilità: bere fino alla morte o godere del “privilegio” di morire al fronte per le ambizioni imperiali del leader neo-sovietico.
Gli alleati di Putin
Ciò che vediamo scatenarsi oggi in Ucraina è la manifestazione finale di oltre un secolo di totalitarismo comunista. Una società violenta, piena di odio, corrotta e dominata dalla menzogna, dove saccheggiatori e rapitori di bambini vengono presentati come “eroi di guerra” e adottanti compassionevoli.
La passività e l’amoralità del popolo russo sono tra i migliori alleati del regime di Putin. L’assenza di una società civile dotata di coscienza critica rende il Cremlino pressoché onnipotente e rivela l’errore capitale commesso dall’Occidente nei confronti della Russia: non aver sostenuto con sufficiente forza la democratizzazione della società.
Il “caso russo” dimostra che la pace, la prosperità e la sicurezza dipendono dalla liberalizzazione delle società oppresse e non da una tolleranza di dubbia efficacia nei confronti dei loro governi.