È da una settimana che si combatte in Sudan, nella capitale Khartoum e nella regione occidentale del Darfur. Benché sia un Paese musulmano, neanche la tregua di 72 ore per celebrare Eid-al-Fitr, la festa islamica che segna la fine del Ramadan e che quest’anno cadeva il 21 aprile, è stata rispettata.
Insolitamente uniti e concordi, l’avevano chiesta Paesi occidentali e islamici, l’Onu, l’Unione europea, l’Unione Africana, la Lega Araba per consentire almeno di seppellire i morti, rifornire i pochi ospedali ancora aperti a Khartoum, ormai sprovvisti di medicinali, scorte di sangue e dispositivi chirurgici, e distribuire aiuti alimentari alla popolazione.
Le fazioni in lotta
La lotta, ancora una volta, è per il potere. A contenderselo in Sudan sono due generali: Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, leader delle Forze di supporto rapido (Fsr), un organismo paramilitare forte di almeno 100.000 unità, e Abdel Fattah al-Burhan, il capo delle forze armate che è anche di fatto il capo dello Stato dal 2021, anno in cui con un colpo di stato ha rovesciato il Consiglio Sovrano composto da civili e militari, a sua volta alla guida del Paese in seguito a un golpe, quello che nel 2019 ha messo fine al regime trentennale di Omar Hassan al Bashir.
La rivalità tra i due leader era stata finora tenuta a freno. Anzi, fino a qualche giorno prima sembrava che potesse dare esiti positivi la mediazione internazionale avviata per accelerare la transizione promessa dai militari per dotare finalmente di istituzioni democratiche un Paese che dal 1956, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, ha conosciuto soltanto regimi autoritari sebbene legittimati da simulacri di democrazia.
Proprio i termini e i tempi della transizione democratica invece sono all’origine delle divergenze sempre più profonde tra i due generali. Al centro delle discussioni c’è inoltre, e non è di poca rilevanza, la richiesta alla giunta militare di cedere le molte, assai redditizie proprietà dell’esercito in vari settori dell’economia che costituiscono una base fondamentale del suo potere.
Ma il fattore scatenante è stata la questione, apertasi al tavolo delle trattative, dell’integrazione dei militari delle Rsf nell’esercito e di chi sarà il capo delle forze armate unificate. Mentre l’esercito governativo propone che venga realizzata entro due anni, Hemedti vuole rimandarla di dieci anni.
Così il 15 aprile ha ordinato l’attacco ai suoi uomini, già pronti in postazioni strategiche attorno e dentro la capitale. Dopo le prime ore, l’esercito governativo ha arginato l’avanzata dei paramilitari. Da allora sono in corso in vari settori della capitale furiosi combattimenti accompagnati da saccheggi e aggressioni ai civili tra i quali si contano già oltre 400 morti e migliaia di feriti.
I crimini di al-Bashir in Darfur
Come in Libia nel 2011, in Sudan del Sud e Repubblica Centrafricana nel 2013 e in Etiopia nel 2020, quattro stati con cui il Sudan confina, può essere l’inizio di un conflitto lungo, cruento, insostenibile per una popolazione che già patisce i danni enormi inflitti al Paese durante il lungo regime di al-Bashir.
Il Sudan nel 2011 ha perso tre quarti dei suoi giacimenti di petrolio quando le regioni del sud a maggioranza cristiana e in cui le riserve di greggio sono concentrate hanno ottenuto grazie alla mediazione internazionale di diventare indipendenti – l’attuale Sudan del Sud – per sottrarsi alla violenza genocida di al Bashir e delle etnie arabo islamiche dominanti.
Quelle stesse etnie hanno assecondato il progetto di arabizzazione del Paese voluta da al Bashir che per realizzarla nel 2003 ha scatenato nella regione del Darfur una guerra di sterminio contro le popolazioni di origine africana, talmente feroce da meritargli una denuncia alla Corte penale internazionale. Con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, la Corte ha emanato nei suoi confronti due mandati di arresto internazionali, nel 2009 e nel 2010 (peraltro tuttora inattuati).
A rischio l’intera area
Per le sue ripercussioni, un conflitto protratto in Sudan può avere effetti destabilizzanti nell’intera area – Corno d’Africa e Africa orientale – coinvolgendo i Paesi che ne fanno parte, tutti con problemi di stabilità e sicurezza, alcuni già provati da gravi crisi politiche ed economiche: in particolare, l’Etiopia, da poco uscita da un conflitto durato due anni, originato dalla ribellione del Tigré e costato centinaia di migliaia di morti.
La Somalia, in guerra dal 1987, affondata da allora nel degrado prodotto da tribalismo, corruzione e integralismo islamico. Il Sudan del Sud, indipendente dal 2011, nella morsa della guerra due anni dopo, scatenata dalle due etnie maggiori, i Dinka e i Nuer, e ancora non del tutto risolta.
Lo stesso Kenya, il Paese più stabile dell’area, tuttavia è appena uscito da una drammatica prova di forza tra il presidente William Ruto e il leader dell’opposizione Raila Odinga. A peggiorare le prospettive si aggiungono la presenza nella regione di milioni di rifugiati e sfollati e una protratta siccità che rischia di provocare una carestia di vaste proporzioni.
L’evacuazione
A conferma delle previsioni più pessimistiche, la sera del 22 aprile Francia, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno attivato i piani di evacuazione dei loro cittadini. Centinaia di stranieri si apprestano a lasciare il Paese a bordo di aerei militari.
Al-Burhan ha acconsentito a scortarli fino all’aeroporto internazionale di Khartoum e Hemedti si è impegnato a sospendere le azioni in prossimità dello scalo durante le operazioni di decollo. I cittadini sauditi e giordani vengono fatti confluire su Port Sudan. Per gli italiani invece è previsto un ponte aereo da Khartoum a Gibuti.