Esteri

Ipocrisie e falsi storici di chi boicotta Israele

La campagna BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni) fa leva sul risentimento di chi ritiene l’Occidente il solo responsabile di razzismo e colonialismo

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Nel suo film del 2014 Jimmy’s Hall, il regista inglese Ken Loach raccontava le vicende di un comunista irlandese che nel 1921 gestiva una sorta di centro sociale nel suo Paese, esaltandone la libertà creativa e denunciando l’ostracismo della Chiesa e del governo, che ne causarono la chiusura.

Ma lo stesso Loach, noto per la sua vicinanza alle frange più estreme della sinistra anticapitalista, da anni è attivo in campagne di boicottaggio contro la cultura israeliana. E quando, nel 2018, l’allora leader del Partito Laburista britannico Jeremy Corbyn fu accusato da deputati del suo stesso partito di fomentare l’antisemitismo, Loach arrivò a dire che quei deputati andavano “espulsi a calci dal partito”.

Questa apparente contraddizione rispecchia un modo di fare tipico delle sinistre radicali: quello di negare a chi non la pensa come loro quelle libertà e diritti che rivendicano solo per se stessi. Un modo di ragionare che è insito in tutte quelle organizzazioni che da circa un ventennio promuovono boicottaggi di Israele.

Fatti recenti

Da quando è riscoppiata la guerra tra Israele e Hamas, hanno acquisito nuova linfa vitale gli appelli per boicottare le istituzioni israeliane: basti pensare all’appello che 4.000 docenti universitari italiani hanno firmato per sospendere tutte le collaborazioni con atenei e centri di ricerca israeliani. In un primo momento l’Università di Cagliari sembrò sul punto di cedere alle pressioni, ma alla fine la mozione dei boicottatori venne bocciata dal Senato accademico.

I tentativi di boicottaggio sono stati tali da prendere di mira anche figure vicine alla sinistra radicale come Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena: all’inaugurazione dell’anno accademico, per essersi rifiutato di prendere parte al boicottaggio degli atenei israeliani, sarebbe stato accusato da attivisti filopalestinesi di essere un “suprematista bianco, razzista, colonialista”.

Nel mondo della cultura, fece discutere ad ottobre la scelta del fumettista Zerocalcare di boicottare Lucca Comics & Games, cui si unirono anche altri artisti, perché era patrocinato dall’ambasciata israeliana (non per ragioni politiche, ma perché la locandina dell’edizione 2023 era stata realizzata da due illustratori israeliani, i gemelli Asaf e Tomer Hanuka).

Più di recente, oltre 1.000 artisti svedesi hanno chiesto di estromettere Israele dall’Eurovision Song Contest, che si terrà a maggio in Svezia. In risposta, circa 400 celebrità di Hollywood hanno firmato un contro-appello, per chiedere che Israele non venga esclusa dall’Eurovision.

Ipocrisie e contraddizioni

La campagna BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), nata nel 2005 e principale movimento attivo nel boicottaggio d’Israele, negli anni ha rivelato diverse incoerenze nel suo modus operandi: nonostante si presentino come un’organizzazione non violenta, il loro fondatore, Omar Barghouti (che di recente è stato ospite del Comune e dell’Università di Bologna), nel 2014 appoggiò apertamente il terrorismo, dicendo che “i palestinesi hanno il diritto di fare resistenza con ogni mezzo, compresa la resistenza armata”.

Lo stesso Barghouti da un lato predica l’emarginazione completa d’Israele da parte del resto del mondo, e ha detto testualmente che “non vogliamo uno Stato ebraico in nessuna parte della Palestina”. Ma dall’altro lato, lui stesso ci vive e si è laureato all’Università di Tel Aviv. Infatti, pur essendo nato in Qatar, ha ottenuto la cittadinanza israeliana dopo aver sposato un’araba israeliana. E nel 2017 è stato arrestato per evasione fiscale, con l’accusa di aver nascosto al fisco 700.000 dollari in dieci anni.

Un’altra contraddizione sta nella pretesa del BDS di aiutare i palestinesi; in realtà, i boicottaggi economici in passato hanno avuto un impatto limitato sulle aziende israeliane, ma hanno danneggiato i lavoratori palestinesi che in quelle aziende ci lavoravano.

Un esempio in tal senso è fornito dal caso della Sodastream, azienda israeliana attiva nel campo delle bevande gassate: avevano una fabbrica in Cisgiordania, che nel 2015 venne chiusa e ricollocata in territorio israeliano, a causa delle pressioni del BDS. Chi ci rimise di più non fu la Sodastream, ma le centinaia di palestinesi che ci lavoravano, e che ricevevano stipendi da tre a cinque volte superiori allo stipendio medio di un palestinese della Cisgiordania.

Violenza e complottismo

Nonostante la loro pretesa di essere non violenti e pacifisti, in passato i loro attivisti si sono resi protagonisti di azioni violente, spesso basate su notizie false. L’esempio più eclatante riguarda la catena di locali Starbucks. In anni passati, i filopalestinesi accusarono Starbucks di finanziare l’esercito israeliano. Un’accusa fondata su una lettera del 2006 attribuita all’allora ceo Howard Schultz, in cui affermava di sostenere Israele con centinaia di milioni di dollari. In realtà, la lettera era un falso, scritto dal blogger australiano Andrew Winkler.

Una bufala che generò una reazione a catena, con imam egiziani che alimentarono in televisione certe teorie; uno, Saoufat Hijazi, arrivò persino a sostenere che “la donna nel logo di Starbucks è la regina Ester… la regina degli ebrei”. In realtà, il logo dell’azienda è la riproduzione di una stampa nordica del XVI secolo, che raffigura una sirena.

Questo proliferare di bufale complottiste fece sì che nel 2009, a Londra, un gruppo di militanti filopalestinesi prese d’assalto e distrusse una caffetteria di Starbucks. Questo non è l’unico caso in cui hanno fatto ricorso alla violenza: nel 2019, una decina di sostenitori del BDS aggredì fisicamente a Berlino degli israeliani in visita per un festival cinematografico.

Argomentazioni fallaci

Un’altra questione riguarda le accuse di antisemitismo, che in genere il BDS respinge adottando come argomentazione che esistono anche ebrei ostili a Israele. Ma anche qui, non emerge il fatto che hanno spesso preso di mira chi non la pensa come loro con minacce e intimidazioni, tanto che già prima del 7 ottobre da tempo avevano creato un clima irrespirabile negli atenei anglosassoni per gli studenti ebrei e filoisraeliani. E il fatto che degli ebrei di estrema sinistra si rendano complici di ciò, con una mentalità simile a quella dei collettivi nelle nostre università, diventa solo una foglia di fico per giustificare il loro odio.

Infine, il BDS affonda le sue radici nell’idea che Israele applichi politiche razziste simili a quelle del Sudafrica quando c’era l’apartheid, e che voglia attuare un genocidio o una pulizia etnica. Accuse che non tengono conto del fatto che in Israele gli arabi hanno sempre potuto votare ed essere eletti come deputati, cosa che i neri non potevano fare sotto l’apartheid, né del fatto che in Israele la popolazione araba non ha fatto che aumentare dalla nascita dello Stato (erano 156.000 nel 1948, mentre oggi superano i 2 milioni).

Il paragone che viene spesso fatto con il Sudafrica, che soprattutto negli anni ’80 subì forti sanzioni a causa della segregazione razziale, o quello con le sanzioni alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, non stanno in piedi anche per altri motivi: nel primo caso, come hanno spiegato gli studiosi F.W. Lancaster e Lorraine Haricombe nel 1995, nel migliore dei casi il boicottaggio accademico non ebbe un impatto rilevante, e nel peggiore danneggiò quegli accademici sudafricani che erano contro l’apartheid. Nel secondo caso, basta ricordare che è stato Putin ad aprire le ostilità contro Kiev, così come il 7 ottobre è stato Hamas a violare i confini israeliani, massacrando e rapendo civili innocenti.

Le ragioni dell’odio

A questo punto, viene da chiedersi perché coloro che osteggiano Israele insistano su paragoni improponibili con il Sudafrica di una volta o con la Germania nazista, quando i fatti dimostrano il contrario. Il motivo è che cercano di far leva sul risentimento di chi ritiene l’Occidente il solo responsabile del razzismo e del colonialismo. Un risentimento fondato anch’esso su una visione distorta della storia, che attribuisce alle ingiustizie dell’Occidente un peso maggiore rispetto a quelle delle nazioni non occidentali.

Non a caso, uno dei fondatori di tale corrente di pensiero fu il palestinese-americano Edward Said; docente della Columbia, con il suo saggio del 1978 “Orientalismo” ha posto le basi per la decostruzione operata a sinistra delle storie e identità nazionali dei Paesi occidentali.

Da anni i filopalestinesi cercano di sfruttare questa mentalità per delegittimare Israele e presentarsi sotto una luce positiva: nel 2021, intervistato da Vice, il leader di Hamas a Gaza Yahia Sinwar paragonò il presunto razzismo d’Israele a quello che negli Stati Uniti avrebbe portato all’omicidio dell’afroamericano George Floyd.

Un filone che nel 2020, poco dopo l’omicidio, venne cavalcato anche dallo scrittore trozkista britannico Tariq Ali, il quale sostenne che i poliziotti che se la prendevano coi neri sarebbero stati addestrati in Israele. Un’accusa che era già stata fatta nel 2016 da Amnesty International, ma che fu contestata dall’Associazione nazionale degli agenti di polizia di colore americani, che in una lettera si dissero soddisfatti dell’addestramento ricevuto in Israele.

Per tutte queste ragioni, viene attuato un doppio standard nei confronti d’Israele, “reo” di essere un Paese ebraico e occidentale in un territorio arabo e mediorientale. A tal proposito, è utile ricordare le parole di Mahmoud Darwish, il più famoso poeta palestinese; intervistato nel 1996 dalla poetessa israeliana Helit Yeshurun, Darwish disse:

Sai perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi siete il nostro nemico. L’interesse per la questione palestinese deriva dall’interesse per la questione ebraica. Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me.

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