Esteri

Ivan Gershkovich: il salto di qualità di Mosca nella persecuzione dei giornalisti

Il giornalista del Wall Street Journal condannato a 16 anni per spionaggio potrebbe sparire come altri prima di lui o rientrare in uno scambio di prigionieri

Gershkovich Russia (NBC)

Evan Gershkovich era andato in Russia, nel suo Paese d’origine, come reporter. Da oggi ci resta come prigioniero nel nuovo gulag della Mordovia, terra di campi di concentramento ai tempi dell’Urss (gli ultimi a chiudere, negli anni di Gorbaciov) e tuttora sede delle peggiori colonie penali. Gershkovich è stato condannato venerdì 19 luglio, dal tribunale di Ekaterinburg, a 16 anni di carcere con l’accusa di spionaggio, in un processo-lampo, a porte chiuse in cui la difesa ha avuto le mani legate, sia nella ricerca di prove che nella convocazione dei testimoni. Per il governo degli Stati Uniti si tratta di ingiusta detenzione.

Chi è Evan Gershkovich

Gershkovich non aveva mai conosciuto l’Unione Sovietica, è nato nell’ottobre del 1991, due mesi prima della sua dissoluzione. I suoi genitori, russi emigrati negli Usa nel 1979, lo hanno però mantenuto all’interno del mondo russo: lingua, frequentazioni, conoscenze, interessi erano sempre lì, nel Paese d’origine della famiglia.

Dopo un esordio nella redazione del New York Times, Gershkovich è tornato nella sua terra d’origine nel 2017, iniziando a scrivere per il Moscow Times, un giornale che i putiniani considerano un “covo di traditori” e che si ripropone di far conoscere la Russia agli stranieri, con articoli in lingua inglese. Popolare fra i giovani, attivissimo nella vita moscovita, appassionato di sport, questo giornalista americano si è fatto uno stuolo di amici, fra i russi comuni, non tanto fra quelli di regime. Infatti non si è mai fatto problemi a raccontare lo squallore dell’apparato di Putin, che allora era già ben indirizzato alla sua definitiva svolta totalitaria.

Dopo tre anni al Moscow Times e due alla Agence France Presse, la sua carriera è decollata all’inizio del 2022 quando è entrato nella squadra del Wall Street Journal, bibbia del giornalismo conservatore americano. C’era bisogno di un russo che descrivesse la Russia in tempo di guerra, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, e Gershkovich era l’uomo giusto nel posto giusto. Anche se, per seguire l’Europa nel suo insieme, il WSJ lo ha assunto nella redazione di Londra, lui era in Russia una volta sì e l’altra pure, per documentare il Paese dall’interno. “Ormai è diventata un’abitudine che le persone che conosco vengano portate via”, aveva scritto nel luglio 2022, seguendo le continue ondate di arresti di tutti i critici, dubbiosi e recalcitranti del regime e della sua scelta di invadere il vicino europeo.

L’arresto

Infine l’arresto è toccato a lui, nel marzo 2023, un anno dopo l’inizio della guerra, mentre stava scrivendo un servizio, dagli Urali, sul reclutamento della compagnia Wagner. Prelevato dal Fsb (discendente diretto del Kgb) a Ekaterinburg, è stato accusato di spionaggio. Secondo le autorità russe era lì per studiare le compagnie private militari per conto della CIA. L’accusa non dovrebbe stupire: dal punto di vista del regime di Putin, un reportage, che non sia esplicitamente autorizzato dallo Stato, e non passi attraverso i suoi canali di informazione ufficiali, è automaticamente spionaggio. Non stupisce, in un Paese in cui è addirittura vietato pronunciare o scrivere la parola “guerra”, se riferita a quella che le autorità chiamano ancora “operazione militare speciale” in Ucraina.

Gershkovich aveva documentato diversi casi di arresti arbitrari come il suo, sa che cosa lo attende, conosce le condizioni nelle carceri di massima sicurezza e nelle colonie penali, gli abusi, le violazioni dei diritti dei prigionieri e il lavoro forzato. Adesso vivrà tutto in prima persona, dopo più di un anno passato nel carcere moscovita di Lefortovo. Qui poteva comunicare con i suoi genitori, farsi visitare da un avvocato e dall’ambasciatore americano, anche se le visite e le comunicazioni con il mondo esterno erano pur sempre limitate.

La sorte dei giornalisti

Nella sua prossima destinazione si teme che “scompaia” al resto del mondo, come Vladimir Kara Murza, altro giornalista russo agli arresti di cui non si conosce la sorte e di cui si teme la morte (soprattutto perché in precedenza era stato avvelenato e non è mai guarito), o come i lunghi periodi di blackout informativo che hanno caratterizzato la prigionia di Aleksej Navalnij, l’oppositore che in carcere c’è morto.

Sono 23 i casi conosciuti di giornalisti imprigionati in Russia, attualmente. Ma Gershkovich è l’unico straniero e l’unico occidentale, a parte l’unica parziale eccezione di Alsu Kurmasheva (doppia cittadinanza russa-americana). Se finora Mosca aveva rispettato la piccola comunità di inviati e corrispondenti stranieri, ora, nella sua persecuzione dei giornalisti, ha fatto un salto di qualità.

In Italia ricordiamo ancora l’omicidio di Antonio Russo, nel 2000, inviato di Radio Radicale che documentava i crimini russi in Cecenia. Ma Mosca non ha mai ammesso alcuna responsabilità nella vicenda: si è trattato di un delitto commesso da mano ignota a Tbilisi, in Georgia. Il caso di Gershkovich dimostra invece che la Russia non ha neppure più remore a metterci la faccia. Il regime non lo ha ucciso, ma lo condanna a 16 anni di carcere duro, dove potrebbe “avere un incidente” o “ammalarsi” come è successo a Navalnij.

L’ipotesi di uno scambio

Un processo rapido potrebbe significare la volontà di restituire Gershkovich agli Usa in uno scambio di prigionieri. Ciò confermerebbe quel che Putin ha confidato, nella sua lunga intervista, a un altro giornalista americano (a lui gradito), Tucker Carlson. Sarebbe una buona notizia per Evan Gershkovich e per la sua famiglia. Ma non per i giornalisti stranieri che volessero ancora andare in Russia: potrebbero essere arrestati anche loro per essere poi usati come pedine di scambio con spie russe incarcerate in Occidente. E poi si offendono se la Russia viene definita “Stato terrorista”…