Ha soddisfatto in pieno le aspettative l’audizione al Congresso dell’ex socio di Hunter Biden, Devon Archer, che lunedì, davanti alla House Oversight and Accountability Committee ha confermato le anticipazioni del New York Post che avevamo riportato nel nostro precedente articolo.
Le bugie di Joe
Essenzialmente la sua testimonianza conferma che il presidente Usa Joe Biden ha mentito ai media e al pubblico americano quando ha affermato di non essere a conoscenza degli affari di suo figlio e di non essere stato mai coinvolto in conversazioni con i suoi soci d’affari stranieri. Da vicepresidente degli Stati Uniti, ha partecipato a più di venti tra cene e telefonate con Hunter Biden e i suoi soci d’affari stranieri.
Il “brand” Biden
Devon Archer ha spiegato ai commissari che il “valore” di avere il figlio del vicepresidente, Hunter Biden, nel consiglio di amministrazione di Burisma (compagnia energetica ucraina), mentre l’azienda stava affrontando accuse di corruzione da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Ucraina stessa, era il “brand” Biden. E che l’allora vicepresidente Joe Biden ha apportato il “massimo valore” al “brand”. Non è stato coinvolto in specifici affari durante tali conversazioni, ha spiegato Archer, ma “è stato messo al telefono per vendere il marchio“.
“Joe Biden era il marchio che suo figlio ha venduto in tutto il mondo per arricchire la famiglia Biden”, ha sottolineato il presidente della Commissione, il Repubblicano James Comer.
Archer ha ammesso che “Burisma avrebbe cessato l’attività se il ‘brand’ non fosse stato collegato ad essa”. “Grazie al coinvolgimento dei Biden le persone sarebbero state intimorite a incasinarsi con Burisma dal punto di vista legale”.
La rimozione di Shokin
Confermato anche l’episodio chiave dell’intervento decisivo dell’allora vicepresidente Biden per il licenziamento del procuratore ucraino Viktor Shokin, che stava indagando su Burisma per corruzione. Un intervento che come ha confidato Mykola Zlochevsky, il proprietario di Burisma, ad un informatore dell’FBI, sarebbe costato 10 milioni di dollari, 5 milioni ciascuno a Joe e Hunter.
Dunque, Devon Archer ha confermato al Congresso che nel dicembre 2015, Mykola Zlochevsky e un alto dirigente della compagnia, Vadym Pozharski, esercitarono continue pressioni su Hunter Biden per ottenere aiuto da Washington per fermare il procuratore ucraino.
Il 4 dicembre 2015, Hunter ha messo Zlochevsky e Pozharski direttamente in contatto con l’allora vicepresidente Joe Biden durante una chiamata in vivavoce dall’estero per discutere la questione (questo sarebbe un caso di violazione della legge sulla registrazione degli agenti stranieri). La chiamata si svolse a soli tre giorni dalla visita del vicepresidente a Kiev, in programma dal 7 e al 9 dicembre.
Negli incontri con l’allora presidente Petro Poroshenko e altri alti funzionari ucraini, Biden minacciò che se il procuratore Shokin non fosse stato licenziato, avrebbe trattenuto un miliardo di dollari in aiuti economici di cui l’Ucraina aveva un disperato bisogno mentre cercava di respingere la prima aggressione russa. Nonostante i suoi legami con Poroshenko, Shokin fu licenziato alcune settimane dopo, a marzo del 2016.
Nel 2018 Biden se ne vantò pubblicamente, raccontando ad una conferenza del Council on Foreign Relations di aver detto agli ucraini: “Me ne vado tra sei ore. Se il pubblico ministero non viene licenziato, non avrete i soldi”. E concluse ridacchiando: “Beh, figlio di puttana, è stato licenziato”.
Nel 2014, l’allora vicepresidente Biden ha partecipato ad una cena di lavoro con Hunter e i suoi soci al Café Milano a Washington, ha testimoniato sempre Archer al Congresso. Tra i partecipanti, Elena Baturina, una oligarca russa, vedova dell’ex sindaco di Mosca – esclusa dai soggetti russi colpiti dalle sanzioni dell’amministrazione Usa.
Il cover-up
Alla luce di questa testimonianza, l’impeachment di Donald Trump, per aver chiesto al presidente ucraino Zelensky la collaborazione di Kiev per approfondire proprio tali circostanze, la censura della storia del laptop di Hunter Biden, “suggerita” ai social media dall’FBI e da ex funzionari CIA, e in ultimo il patteggiamento-farsa offerto a Hunter dal Dipartimento di Giustizia, emergono finalmente per quello che sono: deliberati atti finalizzati a insabbiare il traffico di influenza e la sospetta corruzione die Biden con entità straniere. Non solo Ucraina.
Gli affari cinesi
In uno scambio di email del 2011, visionato da Fox News, Hunter Biden si vanta con il suo ex socio Devon Archer della sua relazione con Che Feng, un magnate cinese che chiamavano il “Super Presidente” e che li aveva aiutati ad assicurarsi un’impresa multimilionaria nello Stato comunista.
Feng, figlio di un militare dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), è stato socio in affari di Ma Jian, l’ex viceministro della sicurezza dello Stato, il “KGB cinese”. In quelle email, Hunter spiega ad Archer che il magnate cinese lo amava per il suo “cognome” e per accompagnarsi sempre con “bellissimi uomini ariani simili a dei”.
Le e-mail provano che Feng ha aiutato la società di Hunter Rosemont Seneca Partners e la società Thornton Group LLC di James Bulger ad assicurarsi la loro partnership con la società Bohai Capital di Jonathan Li per lanciare successivamente la Bohai Harvest RST (BHR), controllata da Bank of China Limited.
Si tratta dello stesso Jonathan Li, ceo di BHR, con il quale l’allora vicepresidente Joe Biden prese un caffè a Pechino, secondo quanto testimoniato da Archer al Congresso. E il vicepresidente Usa scrisse persino una lettera di raccomandazione per il college per la figlia di Li.
“Buone notizie da Jonathan dopo il suo incontro con il Super Presidente a Hong Kong”, scrive Michael Lin, il co-fondatore di Thornton Group, a Hunter e Bulger. “Noi tre deteniamo il 20 per cento della società di gestione del fondo mentre Jonathan il 10 per cento (comunque molto, molto bene per voi due e per me!)”.
E riferisce ai due dell’intenzione di Feng di includere nell’impresa altre società sostenute dal Partito Comunista Cinese: “Il Super Presidente ha detto: ‘Non sono avido anche se impegno 100 milioni di dollari. In realtà sto progettando di dare parte del restante 70 per cento ad altre grandi aziende cinesi che inviterò a unirsi a noi, aziende come China Investment Corp. o quel tipo di società ad alto potere'”.
“Credo nel Super Presidente”
Hunter inoltra l’e-mail di Lin ad Archer, osservando che la proposta sembra il colpo di fortuna che stavano cercando: “Tienilo tra noi, per favore”, scrive Hunter ad Archer. “Ma la conclusione è che se tu ed io otteniamo circa il 7 per cento di questo fondo, potrebbe essere per molti versi la fine di tutto. Non credo più nei biglietti della lotteria, ma credo nel Super Presidente (Che Feng, ndr). … So che Michael può essere eccessivamente ottimista, ma se fossimo proprietari al 20 per cento di un fondo sostenuto dal Super Presidente CIC (China Investment Corp, ndr) penso che il limite sia il cielo”.
Hunter quindi spiega ad Archer la sua teoria sul motivo per cui Feng lo ha favorito. Racconta di aver incontrato Feng tramite Li, l’allora ceo di Bohai Capital, che alla fine è diventato ceo di BHR: “La tua domanda: ‘perché il Super Presidente mi ama così tanto?’ ha una risposta facile. Non ha niente a che fare con me e tutto a che fare con il mio cognome (e con il fatto che porto con me bellissimi uomini ariani simili a dei ovunque io vada)”, scrive Hunter.
Hunter ha poi presentato Jonathan Li a suo padre Joe nel dicembre 2013, dopo che erano volati a Pechino sull’Air Force Two, ha raccontato lui stesso al New Yorker nel 2019. L’allora vicepresidente Biden si era recato a Pechino per un incontro programmato con il presidente cinese Xi Jinping. Durante la visita, Hunter organizzò una breve stretta di mano tra Li e suo padre nell’atrio dell’hotel in cui alloggiava la delegazione statunitense, e successivamente incontrò Li in privato. Meno di due settimane dopo, fu registrata la BHR Partners.