Sono generalmente tre le ragioni della disaffezione nei confronti del leader di un partito: l’esistenza di un leader alternativo che punta a sostituirlo, l’insoddisfazione dei parlamentari che non vedono promozioni all’orizzonte e temono per il loro seggio, e, infine, le divisioni politico-ideologiche all’interno dello stesso partito.
Un anti-Boris ancora non c’è
Il primo tentativo di affondare Boris Johnson, leader Tory e primo ministro dal luglio 2019, è fallito – 211 voti favorevoli per lui, a fronte di 148 contrari – perché i ribelli erano un’accozzaglia eterogenea e male organizzata, senza un riferimento politico di rilievo.
Così, quando si è votato al 1922 Committee, Johnson ha potuto tirare un sospiro di sollievo: l’idea di avere il presidente della Commissione Salute, Jeremy Hunt, al suo posto, non ha scaldato il partito, ancora in cerca di un vero anti-Boris. I suoi ministri hanno sostenuto il premier e nessuno, nemmeno chi viene dato come possibile nuovo primo ministro – Sunak, Wallace o Truss – lo ha pugnalato.
Può stare al sicuro, quindi, Johnson? Nemmeno per sogno. Anche Margaret Thatcher vinse un “no-confidence vote” per poi doversi dimettere la settimana successiva. Theresa May fu invitata ad andarsene sei mesi dopo avere ottenuto l’appoggio del 63 per cento dei suoi parlamentari. John Major, invece, fu allontanato dagli elettori nel 1997, dopo che la fronda di John Redwood si risolse in nulla.
Questioni aperte
Restano aperte diverse questioni nel partito Tory, e ancora non si sa se e come Johnson e i parlamentari della sua maggioranza riusciranno a venirne a capo. La politica economica fa sempre discutere dopo le misure straordinarie prese da Sunak due settimane fa per sostenere il pagamento delle bollette da parte degli inglesi e che molti hanno visto come una sconfessione della fiscal policy thatcheriana (anche perché accompagnata dall’aumento delle tasse alle aziende petrolifere ed energetiche).
Vi sono poi alcuni deputati di Londra e del sud-est che temono l’avanzata dei LibDems nei loro seggi e il ritardo del governo nelle politiche green, mentre l’Esecutivo, a loro parere, si sta più preoccupando di finanziare i progetti nelle West Midlands e nel nord-est del Paese nei seggi che hanno rimpinguato la maggioranza di Johnson nel 2019. Boris può insomma dire di avere vinto una battaglia, ma non certo la guerra.