Martedì 12 novembre, si è scritta una pagina tanto triste quanto importante nella storia del Regno Unito e dell’intera cristianità. La giornata londinese è stata convulsa, con un continuo andirivieni tra Lambeth Palace, Buckingham Palace e Downing Street; si è trascinata in quella estraniante mistura di toni sguaiati e dimessi che caratterizza i grandi scandali, e si è conclusa con le dimissioni di Justin Welby. Il 105º arcivescovo di Canterbury è così diventato la prima guida di una grande confessione cristiana a rinunciare al proprio ruolo sull’onda di uno scandalo per abusi commessi al suo interno.
Gli abusi sui minori sono una ferita aperta in molte Chiese cristiane – non ultima quella cattolica – e il modo spesso omertoso con cui vengono gestiti rappresenta un motivo di malcontento molto potente tra i fedeli e non, ma mai finora le conseguenze si erano spinte così in alto nella scala gerarchica.
Oggi, le dimissioni dell’arcivescovo di Canterbury lasciano i 100 milioni di fedeli della Comunione Anglicana, il terzo gruppo cristiano dopo cattolici e ortodossi, diffusa in ogni continente, spaesati e senza la loro guida. Ma soprattutto, per dirla con Dante, è il modo che offende, sono i dettagli a lasciare con un senso di amarezza desolante.
Chiariamo subito che Welby non risulta indagato per alcun reato, né pare probabile che lo sarà: il nodo di questo commento non è di natura penale, quanto morale e politica. Vi presenterò i fatti, nel tentativo di riflettere su come all’interno di un’istituzione pusillanimità e pressappochismo possano amplificare i danni causati da malvagità e abbrutimento, su come ogni potere sia sempre a rischio di trattare se stesso con indulgenza e l’esterno con ipocrisia, e su come l’accountability di chi lo riveste rappresenti l’unica garanzia di controllo.
Lo scandalo
Lo scandalo è scoppiato durante la settimana passata, in seguito alla pubblicazione della Makin Review, un report indipendente richiesto dalle parti in causa sui crimini di John Smyth, ritenuto il più prolifico molestatore e stupratore seriale nella storia della Church of England.
Smyth, classe 1941, di professione avvocato, a partire dagli anni ’60 è stato molto attivo nella gestione degli Iwerne Camps, campi estivi organizzati dalla corrente evangelica della Chiesa – la stessa cui appartiene Welby. Per cinquant’anni, la sua figura è stata rappresentata come positiva, finché nel 2017 Channel 4 ha trasmesso un’inchiesta giornalistica che ne ha per la prima volta portato alla luce gli abusi compiuti lungo l’arco di cinque decenni. La polizia dell’Hampshire ha subito aperto un’indagine, ma Smyth è morto a Città del Capo (all’età di 75 anni) nel 2018, prima che le autorità britanniche potessero procedere.
Eppure, le prime accuse contro Smyth risalgono addirittura alla fine degli Anni ’70, e la Makin Review ha sottolineato che un numero ristretto di funzionari della Chiesa d’Inghilterra ne era a conoscenza, ma per proteggerne la reputazione ha proceduto a insabbiare sistematicamente.
La scelta fu quella di un’uscita in sordina e apparentemente onorevole: Smyth si ritirò dalla gestione dei campi e lasciò il Paese, trasferendosi nello Zimbabwe (nel 1984), dove diede vita a un sistema di campi evangelici ispirato a quello inglese. In pratica, afferma il rapporto, per evitare lo scandalo gli è stato permesso di continuare ad abusare di bambini e ragazzi, purché le vittime fossero non più inglesi, ma africane.
Le responsabilità di Welby
Non è però tutto qui: il rapporto aggiunge che dal 2013 “la Chiesa d’Inghilterra era a conoscenza, ai massimi livelli, degli abusi” perché una vittima si era fatta avanti, ma nessuno ha agito. Justin Welby stesso, asceso al seggio di Agostino in quell’anno, ne fu informato, e “avrebbe potuto e dovuto” denunciare tutto alle autorità. Tuttavia, pare aver “mostrato una spiccata mancanza di curiosità”, tanto da minimizzare la questione. Eppure, se avesse fatto ciò che doveva, Smyth avrebbe potuto essere assicurato alla giustizia.
La Review getta ombre ancora più scure sull’Arcivescovo, che conosceva Smyth dai tempi dei campi evangelici negli anni Settanta. Per quanto non vi siano prove che Welby abbia “mantenuto contatti significativi” con l’avvocato negli anni successivi, un testimone ha dichiarato che era venuto a conoscenza di informazioni di natura “grave” su di lui già nel 1978.
Welby ha dichiarato di non ricordare, e di non essere a conoscenza delle azioni di Smyth in quel periodo, salvo poi ammettere che all’inizio del 1981 un prete di nome Peter Sertin gli disse che uno dei ragazzi della sua parrocchia gli aveva “parlato” di Smyth. Sertin avvertì Welby che Smyth non era una brava persona e che doveva “stargli lontano”, ma il futuro arcivescovo avrebbe trovato l’avvertimento “vago” e non meritevole di ulteriore interesse.
Già lunedì, mentre il rapporto circolava, e con esso si diffondeva la consapevolezza che la Chiesa aveva di fatto permesso a un suo funzionario di molestare e stuprare almeno 130 – i casi finora accertati – bambini e ragazzi, montava anche la rabbia. Il Sinodo Generale, principale organo legislativo della Chiesa d’Inghilterra, ha chiesto le dimissioni di Welby, attraverso una petizione firmata in poche ore da decine di vescovi e da un migliaio di membri laici e religiosi della comunità.
Già in serata, i giornali definivano “indifendibile” la posizione dell’Arcivescovo, che lunedì mattina ha conferito con Re Carlo III e poi col primo ministro Keir Starmer, rassegnando le dimissioni con una lettera ufficiale.
La lettera di dimissioni
E proprio la lettera di Welby è forse ciò che di questa vicenda trasmette la disillusione più amara. Una pagina che pare uscita da un romanzo di Sciascia: una sequela disarmante di non ricordo, non sapevo, non credevo, ho dato per scontato, certo che a posteriori, avevo capito male… tanto valeva che ammettesse candidamente “mi è mancato il coraggio”.
Welby ringrazia addirittura gli investigatori che hanno lavorato alla Makin Review per aver “messo a nudo la cospirazione del silenzio durata tanto a lungo”, quasi lui fosse un osservatore esterno. “Quando nel 2013 sono stato informato [dei fatti] e mi è stato detto che la polizia era stata avvisata, ho creduto erroneamente che sarebbe seguita una soluzione adeguata”, questa la versione ufficiale dell’Arcivescovo. Dire che non soddisfa sarebbe poco: queste righe offrono uno spettacolo desolante, il momento in cui la tragedia si tramuta in farsa.
Certo, noi stessi dobbiamo stare attenti a non farci trascinare dal risentimento per una così aperta ammissione di incapacità dei massimi vertici di una grande istituzione a garantire la sicurezza dei suoi membri e la trasparenza dei propri meccanismi di controllo. Non tocca a noi giudicare l’uomo Justin Welby. Probabilmente nessuno di noi avrebbe avuto, da trentenne laico che lavora nella finanza e passa il tempo libero nella Chiesa, il coraggio per chiedere di indagare su una personalità in vista o per riferire gli avvertimenti ricevuti.
Però l’Arcivescovo Welby, centocinquesimo in una linea di successione ininterrotta per un millennio e mezzo, guida morale e spirituale di 100 milioni di persone, avrebbe probabilmente dovuto trovarlo per informare le autorità e rendere pubblico un male che solo così avrebbe potuto essere affrontato e sanato. E a ben poco serve dire che altri non lo hanno fatto, che la Chiesa Cattolica non compie passi decisivi nella lotta alla pedofilia; in questo caso mal comune non reca a nessuno mezzo gaudio.
L’Arcivescovo woke
“È chiaro che devo assumermi la responsabilità personale e istituzionale per il lungo e traumatizzante periodo compreso tra il 2013 e il 2024”. Con queste parole Welby pone la parola fine a un episcopato che ha visto succedere tante cose, forse troppe, o meglio ancora disposte in modo rapsodico, senza un vero filo conduttore. Ovviamente, sulla scia dello scandalo, in tanti gli stanno già presentando tutti i conti accumulati in questi 12 anni.
“Aveva cominciato bene” sentenzia lapidario il Telegraph, “ma poi è diventato woke”. Personalmente, non credo che Welby sia mai stato woke. Credo piuttosto che lui stesso abbia avuto difficoltà nel trovare una identità precisa per il suo episcopato, e che abbia cercato di barcamenarsi in un mondo in evidente polarizzazione, sforzandosi in ogni modo di evitare strappi. Chiamato a succedere a una figura di spessore quale Rowan Williams, eminente teologo e filosofo, si è comunque impegnato nel portare avanti le iniziative di dialogo ecumenico con cattolici ortodossi promosse dal suo predecessore, pur essendo espressione della corrente evangelica.
Ha sostenuto le politiche “affirmative” decise dal Sinodo, ma quando quest’ultimo si è spaccato sul tema della benedizione alle coppie omosessuali non ha preso una posizione, limitandosi ad avallare la decisione finale favorevole, pur senza esserlo lui stesso a livello personale, e così ha finito per scontentare un po’ tutti, tanto che la Comunione Anglicana si è trovata sull’orlo della spaccatura definitiva.
Ha criticato l’approccio ambientale “poco green” dei governi conservatori, ma non ha mai disinvestito gli asset della Chiesa investiti in azioni di compagnie petrolifere. Su altri temi ha saputo invece distinguersi per dinamismo e correttezza: è stato fra i pochi leader religiosi a difendere senza se e senza ma la causa ucraina, e si è schierato in modo netto contro l’antisemitismo di ogni origine e a favore del dialogo interreligioso.
La doppia morale
Negli ultimi anni, il suo operato si è distinto soprattutto per la costante tensione verso l’appianamento dei torti passati, nell’ottica di rivedere la storia della Chiesa nel mondo, indissolubilmente legata all’imperialismo britannico e ai suoi metodi di “civilizzazione”. Io stesso, qui su Atlantico Quotidiano, ho riportato il suo storico viaggio in Canada, durante il quale ha riconosciuto i crimini commessi nei confronti dei nativi e ha chiesto pubblicamente scusa ai sopravvissuti.
A non oltre una settimana fa risale poi la decisione di rivelare che un suo antenato, 300 anni fa, sarebbe stato coinvolto nel commercio degli schiavi, e scusandosi pubblicamente per questo. Nessuna di queste iniziative è ovviamente sbagliata, anzi: se intraprese con sincerità e coerenza rappresenterebbero un passo importante verso il superamento di schemi usuali e la creazione di una comunità religiosa più giusta e davvero “inclusiva”.
Capirete però come sia fin troppo facile che esse si ritorcano contro, all’irrompere di una situazione come quella che stiamo vivendo. I fedeli si sentono presi in giro, se la loro guida spirituale sente il dovere di chiedere perdono per colpe, vere e gravi ma lontane, commesse da persone che con lui hanno un legame flebile ai danni ormai più di categorie che di persone in carne e ossa con cui fare ammenda, mentre tace per anni circa le colpe recenti, a lui vicinissime e con vittime concrete, che cercano giustizia e se la vedono negata.
Evidentemente, Justin Welby ha trovato conveniente chiedere perdono per le colpe dei suoi antenati verso i popoli dell’Africa, perché farlo non costa nulla, e anzi suscita apprezzamento – al massimo qualche scetticismo. Ammettere le responsabilità nel coprire gli stupri avvenuti ai danni di bambini africani che hanno nome e cognome e portano ancora oggi su di sé i segni delle violenze subite perché qualche oscuro supervisore della Chiesa aveva pensato che fosse meglio toccasse a loro, piuttosto che ai loro coetanei inglesi: questo è più doloroso, meno glamour, e in definitiva più difficile.
L’ipocrisia del potere e l’importanza della accountability
Questo è il punto nodale. La vicenda di Welby ci mostra come sia possibile perpetrare il male, proteggerlo, per pavidità, per quel pressappochismo ispirato dal desiderio di evitare grane, di ricercare il quieto vivere, per la trascuratezza dettata dal timore di rovinare reputazioni e nomi. Ci mostra come il potere – ogni potere – sia sempre soggetto a un grado di ipocrisia che se non viene contenuto finisce per renderlo impotente nel fare il bene e porre rimedio al male.
E soprattutto ci mostra come ogni potere abbia bisogno di un contraltare, di qualcuno cui rendere conto. L’Arcivescovo di Canterbury non è un sovrano assoluto: deve rispondere al re, e deve rendere conto soprattutto al Sinodo Generale, composto di vescovi, prelati e laici, che insieme a lui governa la Chiesa e rappresenta concretamente i suoi membri. Questa accountability è proprio ciò che alla fine ha costretto gli ingranaggi arrugginiti del potere a Lambeth Palace a muoversi.
Incalzato dal Sinodo, l’Arcivescovo hai infine assunto su di sé tutte le responsabilità, sia per la mancanza di azione che per quella di coraggio. In questo novembre, a ridosso del Memorial Day, il giorno in cui si ricordano le giovani vite perdute nella Grande Guerra, Justin Welby ha finalmente trovato la forza per fare ciò che deve essere fatto, per realizzare qualcosa che possa davvero avere un effetto.
Perché questo gesto definisce tutto il suo episcopato, e segna la storia del cristianesimo. La segna in negativo, certo, ma nella sua potenza simbolica e pratica forse può essere l’unico atto capace di scuotere abbastanza istituzioni troppo a lungo assuefatte all’omertà e convinte della necessità di lavare in casa i panni sporchi.
Per la prima volta nella storia, la guida di una grande denominazione cristiana, che rivendica la successione apostolica diretta, riconosce le colpe della Chiesa nella gestione degli abusi al punto da dimettersi. Mentre in Inghilterra la Chiesa Anglicana cercherà di ripartire da questa sorta di anno zero, forse tutte le comunità possono trarre da questa vicenda le conclusioni più salutari per gestire quella che resta troppo spesso una ferita aperta.