La guerra tra Israele e Hamas ha provocato un arresto del processo di normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e gli Stati arabi. Il percorso diplomatico sembrava essersi velocizzato con gli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti nel 2020, che avevano partorito una prospettiva di pace duratura tra Israele e il resto del Medio Oriente, tramite il riconoscimento dello Stato ebraico e l’accettazione della sua esistenza da parte del mondo arabo, in particolar modo dell’Arabia Saudita.
Un nuovo Medio Oriente
Uno scenario che nelle scorse settimane pareva destinato ad attraversare un passaggio storico, con l’annuncio della pace tra Gerusalemme e Riyad. Non solo relazioni formali, quanto il principio di una partnership commerciale, economica e politica che avrebbe favorito l’avvento di investimenti reciproci tra i due Paesi, in particolare nei settori energetici e ferroviari, oltre a rendere possibile l’ampliamento degli accordi ad altri Paesi della regione, al fine di creare “un nuovo Medio Oriente”, per riprendere l’espressione utilizzata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu nel discorso all’Onu.
Un cambio di passo rispetto alla storia, dettato dalla comprensione delle leadership arabe di dover convivere pacificamente con Israele (non potendolo distruggere militarmente, data la sua superiorità) e poter sfruttare le relazioni con esso per modernizzare i propri Paesi, migliorarne prospettive sociali ed economiche, avvicinandosi al modello capitalistico occidentale e giovandosi dei suoi benefici.
Su questo aspetto, soprattutto l’Arabia Saudita appariva intenzionata a voltare pagina con il proprio passato, ampliando progressivamente le libertà civili interne e convertendosi ad un sistema maggiormente vicino alla concezione pro-mercato dell’Occidente, oltre che della stessa Israele.
Il grande sconfitto
Tuttavia, questo percorso di pace, che puntava anche a favorire un accordo tra Israele e palestinesi, avrebbe visto un grande sconfitto: l’Iran, con le sue protesi di Hezbollah ed Hamas in Libano e a Gaza. Infatti, gli Accordi di Abramo ed il processo di normalizzazione nella regione, nelle intenzioni dei Paesi arabi, non soltanto di Israele ed Usa, avrebbe portato a isolare l’Iran sciita, unico Paese dell’area ad avere ancora come obiettivo la cancellazione di Israele dalle mappe geografiche.
Pertanto, la guerra lanciata da Hamas, uno dei suoi proxy, va vista come un tentativo di impedire il proprio isolamento, stoppare il percorso di normalizzazione tra Israele e mondo arabo e puntare nel medio termine a ottenere la leadership in Medio Oriente. Un aspetto subdolo della strategia iraniana è riacutizzare il sentimento di odio verso Israele e gli ebrei, mai sopito nelle opinioni pubbliche degli Stati arabi (e anche europei). Non casuali quindi gli appelli a unirsi alla “resistenza” e alla lotta contro l’Occidente dei vertici di Hamas.
Boomerang per gli Stati arabi
Questa la chiave di volta per comprendere quanto l’approccio del passato delle leadership arabe verso Israele si stia ora rivelando ora un boomerang: oggi infatti si vedono impossibilitate a condannare pubblicamente Hamas, nonostante ne riconoscano la minaccia e vedano in Teheran un nemico comune. Mentre il loro approccio mutava negli anni, infatti, decenni di propaganda hanno radicato nelle piazze arabe un sentimento che identifica Israele come nemico da abbattere.
Nelle prossime settimane lo scenario potrebbe addirittura peggiorare, data la possibile escalation del conflitto su scala regionale, che imporrebbe agli Stati arabi una precisa scelta di campo: sfidare le proprie opinioni pubbliche e scegliere la modernizzazione economica, schierandosi con l’Occidente. Oppure, supportare la barbarie contro Israele invocata dalla loro stessa gente, favorendo però indirettamente gli interessi iraniani?
I Paesi arabi si trovano quindi tra due fuochi, vittime del disegno iraniano di destabilizzazione della regione.