Esteri

La Cina ora accelera il “decoupling” auspicato da Donald Trump

Le Big cinesi lasciano Wall Street: sempre più stringenti sia le regole Usa sulle quotate per contrastare l’influenza cinese che il controllo statale di Pechino sull’economia

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Si rammenterà che uno dei principali obiettivi di Donald Trump era il decoupling, vale a dire il distacco (o disaccoppiamento) tra l’economia Usa e quella cinese, che l’ex presidente giudicava – e con buone ragioni – troppo interconnesse. Aveva inoltre impostato una politica dei dazi destinata a frenare le strategie di dumping praticate da Pechino senza molte remore.

Circa i dazi non vi sono notizie certe. Pareva a un certo punto che il presidente Joe Biden intendesse mitigarli, o addirittura abolirli, per cercare di migliorare le relazioni tra le due potenze vista la crescente tensione sul problema di Taiwan.

Il delisting da Wall Street

Più chiara la situazione del decoupling, giacché Pechino lo sta realizzando per conto suo. Giunge infatti notizia che cinque grandi aziende cinesi hanno deciso di lasciare la Borsa di New York, dove erano approdate in tempi più tranquilli.

Si tratta del gigante petrolifero Sinopec, oltre a China Life Insurance, PetroChina, China Petroleum Chemical Corp. e Aluminium Corp. of China. Assieme hanno una capitalizzazione di circa 370 miliardi di dollari. Qualcuno ha notato che valgono più della metà della capitalizzazione totale di Piazza Affari.

Non si tratta dunque di un’uscita di poco conto, anche se i cinesi sostengono che il volume delle loro negoziazioni a Wall Street è piuttosto esiguo rispetto a quello di alcune piazze asiatiche, e soprattutto di Hong Kong. Citano inoltre gli oneri amministrativi troppo elevati praticati a New York.

Regole Usa più stringenti

In realtà i problemi sarebbero altri. Nella Repubblica Popolare non esistono aziende completamente private, in quanto ognuna deve sottostare al controllo del governo e del Partito comunista. Si dà invece il caso che negli Stati Uniti esista una legge che richiede alle società quotate nelle Borse americane di non essere possedute dal governo cinese.

Inoltre, le regole Usa esigono l’accesso, da parte delle autorità di controllo, ai libri contabili delle aziende quotate, e tali regole ai cinesi non vanno bene. E’ quindi prevedibile che in futuro la quotazione delle aziende del Dragone nelle Borse Usa diventerà sempre più difficile e i cinesi, per l’appunto, reagiscono con il delisting, cioè andandosene in tempi rapidi. Il completamento dell’operazione è infatti previsto tra agosto e settembre dell’anno in corso.

Lo statalismo di Xi

Contano però le implicazioni politiche del suddetto delisting. Da quando Xi Jinping è al potere, si è verificata in Cina una svolta statalista volta a contestare le innovazioni “capitaliste” introdotte a suo tempo da Deng Xiaoping. Il controllo statale su ogni tipo di attività economica (e non solo) è diventato più stringente, al punto che alcuni vi hanno visto un ritorno al maoismo.

Per l’attuale gruppo dirigente di Pechino business e profitto sono importanti, ma sempre meno dell’ideologia che ora assomiglia al marxismo-leninismo rivisto da Mao Zedong (con in più una spruzzata di confucianesimo).

Dialogo Usa-Cina difficile

Si noti che il dialogo tra Washington e Pechino diventa a questo punto sempre più difficile. In novembre è previsto un faccia a faccia tra Biden e Xi Jinping, ma sulla sua fattibilità esistono parecchi dubbi.

Una delegazione del Congresso Usa ha visitato Taiwan pochi giorni dopo il viaggio di Nancy Pelosi, e questo ha rinfocolato l’ira cinese. Forse non accadrà, ma è anche possibile che Xi compia degli atti di forza contro l’isola per presentarsi come “vincitore” al congresso del Partito del prossimo novembre, che dovrebbe concedergli un inedito terzo mandato.

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