Esteri

La collisione Usa-Israele ora è un fatto, ma può peggiorare

L’astensione Usa all’Onu lo certifica, ma il culmine arriverà con l’operazione a Rafah. Manovra spericolata di Biden, alla ricerca di guadagni politici interni

Usa astensione Onu Israele L'ambasciatrice Usa Linda Thomas-Greenfield si astiene facendo passare la risoluzione contro Israele

La risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite traccia uno spartiacque nella politica internazionale, modificando notevolmente le dinamiche di schieramento consolidate che sottendono al conflitto Israele-Hamas. La risoluzione è significativa per due motivi: in primis, rappresenta la prima volta dal 7 Ottobre che il Consiglio di Sicurezza ha raggiunto un consenso su una linea d’azione; e, circostanza cruciale, è stata adottata con l’astensione degli Stati Uniti.

Superando i veti precedenti posti dagli Usa, dalla Cina e dalla Russia, con il voto del 25 marzo, il Consiglio di Sicurezza è riuscito a rompere l’impasse a tutto danno di Israele, coinvolgendo lo Stato ebraico in una partita a scacchi diplomatica, che espone gli interessi strategici contrastanti delle grandi potenze.

La risoluzione

La risoluzione richiede un “cessate il fuoco immediato durante il Ramadan, rispettato da tutte le parti in conflitto, che porti a una soluzione duratura e sostenibile”, incluso “il rilascio di tutti gli ostaggi e l’accesso umanitario per affrontare le emergenze mediche”. Sorprendentemente, il testo, passato con 14 voti favorevoli e la sola astensione Usa, non menziona esplicitamente Hamas né chiede il rilascio degli ostaggi israeliani ancora detenuti nella Striscia di Gaza.

Israele ha espresso immediatamente rammarico per la rinuncia al veto da parte di Washington, considerando il passaggio della risoluzione uno schiaffo al governo israeliano da parte dell’amministrazione Biden. “Si tratta dell’abbandono della posizione sistematicamente tenuta dagli Usa al Consiglio di Sicurezza fin dall’inizio della guerra,” recita una dichiarazione rilasciata dall’Ufficio del primo ministro israeliano, che lamenta “questo voto danneggia sia lo sforzo bellico che lo sforzo per il rilascio degli ostaggi”.

Una questione legale

Subito dopo l’approvazione della risoluzione, il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Matthew A. Miller, ha diramato un comunicato stampa per dichiarare che “la risoluzione odierna è una risoluzione non vincolante”. Ma così facendo, Miller ha aperto una questione legale.

Mentre le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno valore politico e simbolico, quelle adottate dal Consiglio di Sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite sono legalmente vincolanti. Lo stesso, però, non può essere automaticamente detto per le risoluzioni adottate ai sensi del Capitolo VI, per le quali l’adempimento non è garantito, come ha immediatamente chiarito il ministro degli esteri israeliano Israel Katz con un post su X, spiegando che Israele non cesserà il fuoco e “continuerà ad agire con la massima determinazione fino al rilascio di tutti gli ostaggi e fino a quando Hamas sarà definitivamente sconfitto a Gaza”.

In un’analisi per lo United States Institute for Peace, Robert Barron valida la posizione di Israele come corretta e prevedibile. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ai sensi del Capitolo VI, sostiene Barron, devono essere prese come i “giravento”, che indicano cambiamenti nelle correnti politiche. Il sostegno trasversale alla risoluzione 2728 e l’astensione degli Usa segnalano una pressione crescente per ottenere almeno una sospensione temporanea del conflitto, ma questa è una situazione già conosciuta da Israele, tradizionalmente sommerso da risoluzione anti-sioniste al Palazzo di vetro.

Le preoccupazioni di Israele

In risposta alla postura ostile degli Usa, Israele ha annullato una visita programmata a Washington, spingendo il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, John F. Kirby, a dichiarare che la Casa Bianca è “molto delusa” e “un po’ perplessa” per l’annullamento della missione israeliana negli Usa.

Al contrario, Hamas ha accolto con soddisfazione la risoluzione, ribadendo la richiesta di “un cessate il fuoco permanente che porti al ritiro di tutte le forze sioniste dalla Striscia di Gaza e al ritorno degli sfollati in Palestina”. Il gruppo terroristico palestinese ha anche dichiarato la sua disponibilità “a impegnarsi in un processo negoziato che porti al rilascio dei prigionieri da entrambe le parti”.

Le implicazioni della risoluzione sulle operazioni militari in corso suscitano preoccupazione a Gerusalemme. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, in visita ufficiale negli Usa per incontri con il consigliere per la sicurezza nazionale Jacob J. Sullivan e il segretario di Stato Antony J. Blinken, programmati per discutere dell’offensiva militare a Rafah, ha dichiarato in un video che Israele “non ha il diritto morale di interrompere la guerra a Gaza finché ci sono ancora ostaggi detenuti nella Striscia. La mancanza di una vittoria decisiva a Gaza potrebbe avvicinarci a una guerra sul confine nord,” facendo riferimento al rafforzamento politico di Hezbollah in Libano.

Le preoccupazioni di Gallant sono condivise da Giovanni Giacalone, un analista e docente di sicurezza e terrorismo presso ITSTIME e ITCT: “chiedere un cessate il fuoco permette a Hamas di rivendicare la vittoria e aspettarsi che Israele perda la guerra, cosa che Gerusalemme non può e non deve permettere. Se le stesse pressioni internazionali esercitate su Israele fossero applicate ad Hamas, potremmo già aver visto qualche progresso, specialmente per quanto riguarda il rilascio degli ostaggi”.

Giacalone inoltre spiega, “tentare di imporre un cessate il fuoco significa impedire ad Israele di concludere la sua campagna militare basata strategicamente sull’avanzata dal nord di Gaza verso Rafah, facilitata dalla decisione dell’Egitto di sigillare il confine. Questo gruppo terroristico genocida, che massacra innocenti israeliani e sfrutta i gazawiti come pedine, rappresenta una minaccia fondamentale all’esistenza e alla sicurezza di Israele. L’amministrazione Biden non può essere ignara di queste realtà strategiche”.

Il vero motivo della crisi

Certamente, il punto focale della crisi sembra essere la prossima corsa presidenziale negli Stati Uniti. Di fronte a una rielezione molto incerta a novembre, il presidente Joseph R. Biden sta, più che mai, sfruttando la politica estera per garantirsi guadagni politici interni.

In un commento per L’Informale, Niram Ferretti, uno specialista di Medio Oriente, sostiene che a “Biden tocca quindi barcamenarsi. Non può abbandonare Israele ma deve gestire le esigenze imposte dalla politica interna americana e in più deve promuovere un’agenda in linea di continuità con quella degli [USA] (unica eccezione l’amministrazione Trump) degli ultimi trent’anni, che vede nella nascita di uno Stato palestinese unificato tra Gaza e la Cisgiordania la soluzione di un conflitto che dura dal 1948 ad oggi, nonostante la storia e i fatti evidenzino che il suo nucleo è molto più profondo e radicale di una disputa territoriale“.

Inoltre, spiega Ferretti, il POTUS sta compiendo una manovra ad alto rischio, simile a una scommessa all-in, che potrebbe rivelarsi controproducente: “Sospendere il sostegno a Israele … [da] una parte accontenterebbe l’ala più estremista del suo partito e l’elettorato islamico, ma dall’altra fornirebbe al Partito Repubblicano e a Donald J. Trump, che su Israele ha iniziato ad andare all’attacco, un’arma formidabile per colpirlo, ma non gli gioverebbe neanche presso l’opinione pubblica americana generale in maggioranza a sostegno di Israele”.

Tensione Usa-Israele

La decisione Usa giunge in un momento di crescente tensione con Israele. Dieci giorni prima dell’astensione sul voto in Consiglio di Sicurezza, in un discorso al Senato, il leader di maggioranza Charles E. (“Chuck”) Schumer ha criticato la coalizione di governo di Israele, scatenando furibonde polemiche. La susseguente approvazione del discorso di Schumer da parte del presidente Biden ha provocato la forte condanna del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Successivi memo trapelati dal Dipartimento di Stato accusavano Israele di danneggiare la propria reputazione internazionale, e l’avvertimento del vicepresidente Kamala D. Harris sulle potenziali “conseguenze”, nel caso Israele andasse avanti con l’operazione militare finale pianificata a Rafah, hanno preparato il terreno per l’astensione Usa sulla risoluzione 2728.

La collisione tra Usa e Israele, per la quale ci sono stati molti presagi, è ora un fatto, nota Ferretti, e la risoluzione del Consiglio di Sicurezza lo certifica, ma, come dice brutalmente, “non siamo ancora al climax; quello arriverà quando le Forze di Difesa Israeliane entreranno finalmente a Rafah per chiudere la partita con Hamas“.