Esteri

L'intervista

La domanda non è se, ma quando Pechino attaccherà Taiwan

L’analista Alice Dell’Era ad Atlantico Quotidiano: un intervento militare Usa in difesa di Taipei non sarebbe così improbabile. E Tokyo fornirebbe supporto

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La proiezione globale della Nato e la cooperazione sempre più stretta con i partner dell’Indo-Pacifico, presenti all’ultimo summit di Madrid; l’ipotesi di una Nato asiatica; le recenti parole del presidente Usa Biden sulla difesa di Taiwan; il riarmo del Giappone in funzione anti-cinese e gli scenari di Tokyo riguardo un possibile attacco di Pechino per riprendere il controllo di Taiwan. Questi i temi della nostra conversazione a tutto campo con Alice Dell’Era, collaboratrice del Centro Studi Geopolitica.info, esperta di politica estera del Giappone e di Indo-Pacifico.

Proiezione globale della Nato

TOMMASO ALESSANDRO DE FILIPPO: La Nato resta un’Alleanza regionale, euro-atlantica, e non si prevede un impegno operativo nell’Indo-Pacifico, ma l’indicazione della Cina nello Strategic Concept come una “sfida sistemica” e la presenza al vertice anche di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, non indicano una proiezione ormai globale della Nato e una comune azione con questi partner per lo meno in ambito politico ed economico?

ALICE DELL’ERA: L’inclusione della sfida cinese all’interno dello Strategic Concept non stupisce. Si tratta, infatti, di un passo già preannunciato nel Rapporto Nato 2030, il documento commissionato dal segretario generale Jens Stoltenberg a seguito del vertice di Londra del 2019.

Questa mossa è dettata dal fatto che, in un contesto internazionale sempre più complesso, la sicurezza transatlantica si interseca sempre più con quella della regione asiatica e, pertanto, non può essere concepita indipendentemente dalle dinamiche di questo teatro. Sebbene la Cina non rappresenti un pericolo militare diretto, la crescente influenza cinese anche nelle tradizionali aree di interesse della Nato rende Pechino un competitor da non sottovalutare.

Si pensi ai rischi e alle vulnerabilità associati agli investimenti cinesi in infrastrutture critiche e all’utilizzo di tecnologie di telecomunicazione cinesi, o alle implicazioni che la dipendenza dalla Cina nel campo delle catene del valore possa avere sulle economie degli alleati, e persino sulla loro industria di difesa. Alla luce delle complesse sfide che intersecano sia la regione euro-atlantica che quella indo-pacifica, è quindi comprensibile che la Nato miri a estendere la propria visione strategica al di fuori del suo tradizionale teatro operativo.

Anche la presenza al vertice dei partner asiatici è da interpretare in funzione proprio di questa interdipendenza nelle dinamiche securitarie globali. Già il suddetto Report Nato 2030 sollecitava la necessità di approfondire le relazioni con i partner globali.

Fino ad ora la collaborazione con questi partner è stata portata avanti in maniera sporadica, per lo più su iniziativa dei partner stessi. L’invito a partecipare al vertice di Madrid indica che la Nato sta muovendosi per intessere forme di collaborazione più concrete e che rispondano in maniera coordinata alle sfide condivise. La partecipazione dei leader dei quattro attori asiatici al vertice evidenzia, quindi, la volontà di promuovere, per l’appunto, una linea d’azione comune.

I riferimenti alla Cina e la presenza dei partner sembrano, quindi, suggerire una proiezione allargata della Nato. Quando si parla della sfida sistemica cinese nel contesto dell’Alleanza Atlantica, il dibattito si incentra per lo più sul ruolo che la Nato può ricoprire nell’Indo-Pacifico.

A riguardo, da un lato bisogna riconoscere che la proiezione globale della Nato rimane limitata, viste le discrepanze in termini di risorse, capacità e priorità degli alleati. Dall’altro, è anche vero che alcuni membri dell’Alleanza già da alcuni anni guardano al di fuori del teatro euro-atlantico.

Regno Unito, Francia, Germania e Olanda hanno, ad esempio, approfondito la propria presenza navale nell’Indo-Pacifico seppur a livello individuale e non sotto il comando dell’Organizzazione. Queste azioni, pur essendo condotte individualmente, vanno ad aggiungersi a una serie di iniziative prettamente politiche portate avanti in maniera collettiva.

A mio avviso, però, un’importante novità legata alla presenza di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda non riguarda solo la proiezione globale della Nato, ma anche la bidirezionalità di queste partnership. Non sono solo i membri dell’Alleanza Atlantica a guardare al di là del proprio tradizionale teatro regionale. Anche i partner asiatici guardano infatti al di fuori dell’Indo-Pacifico e alla sicurezza in Europa.

Si pensi alla risposta di Paesi quali Australia e Giappone al conflitto in Ucraina. Questi sono due Paesi che negli ultimi anni hanno partecipato a esercitazioni militari al fianco di alleati Nato nel teatro euro-atlantico. La potenzialità di queste partnership si trova, quindi, nella cooperazione e coordinazione tra alleati e partner in un contesto multiregionale.

Una Nato asiatica?

TADF: Il formato Quad, o il patto Aukus, possono essere considerati embrioni di una Nato dell’Indo-Pacifico in funzione anti-cinese, è quello lo sbocco a suo avviso nelle intenzioni dei partecipanti?

ADE: Per rispondere a questa domanda, bisogna innanzitutto distinguere questi due meccanismi. Il Quad nasce nel 2007 come un forum di dialogo informale per affrontare le sfide alla sicurezza regionale. Non ha quindi una struttura paragonabile alla Nato, che è invece un’alleanza militare con disposizioni di difesa collettiva.

Una trasformazione del Quad in una Nato asiatica, seppur non escludibile a priori, rimane altamente improbabile. Non dobbiamo dimenticare che l’India, seppur avendo rivalità e dispute irrisolte con Pechino, mantiene una visione regionale inclusiva e oppone quindi l’idea di un meccanismo formale apertamente anticinese. Un discorso simile si può fare anche, in parte, per il Giappone e per l’Australia, due Paesi il cui benessere economico è strettamente legato a Pechino.

Sicuramente la Cina rimane un fattore chiave dietro al dinamismo del Quad, tuttavia, a mio avviso, la volontà dei quattro attori è di bilanciare l’eccesivo peso e influenza cinese in diversi settori, senza necessariamente essere legati a una struttura difensiva formale quale quella mantenuta dalla Nato.

Un discorso simile si può fare anche per il patto Aukus. Proprio come il Quad, l’Aukus non rappresenta un meccanismo di sicurezza formale, in quanto è privo di garanzie di difesa collettiva. Si tratta invece di una partnership trilaterale che va a sovrapporsi a iniziative e alleanze già esistenti. Gli Stati Uniti sono legati al Regno Unito tramite la Nato e all’Australia tramite l’alleanza Anzus. I tre partecipano inoltre all’accordo di intelligence sharing noto come Five Eyes di cui fanno parte anche Canada e Nuova Zelanda.

Di base, l’Aukus non crea, quindi, una struttura nuova ma va a promuovere ulteriormente il processo di integrazione e interoperabilità dei tre partner in campi specifici: in particolare la condivisione di intelligence, la condivisione e sviluppo congiunto di tecnologie d’avanguardia e intelligenza artificiale.

Anche in questo caso, gli occhi sono puntati sulla Cina perché è in confronto a questa che il technological edge delle potenze occidentali si sta erodendo. Se l’Aukus è quindi una partnership di collaborazione trilaterale più che un’alleanza in senso stretto, al momento non sembra volersi estendere ad alleanza militare formale, né tanto meno sembra che i tre membri abbiano intenzione di includere ulteriori attori regionali.

Detto questo, bisogna tuttavia considerare che un eventuale trasformazione del network di alleanze e partnership esistenti (oltre quindi i soli Quad e Aukus) in una Nato asiatica dipenderà non solo dalle intenzioni attuali dei partecipanti, ma anche dalle azioni future di Pechino.

L’Indo-Pacific Economic Framework

TADF: Il 23 maggio scorso è stata lanciata da Tokyo l’iniziativa Indo-Pacific Economic Framework. Non sarebbe stato il caso di invitare anche Taiwan a farne parte?

ADE: L’IPEF è un framework economico diverso dai tradizionali accordi di libero scambio, in quanto non prevede vincoli relativi a dazi e tariffe. Si incentra invece su quattro temi principali: economia digitale; resilienza delle catene del valore; energia green; lotta alla corruzione. Taiwan può fornire un contributo essenziale nel perseguire tali obiettivi in Asia, soprattutto in riferimento alle catene di approvvigionamento. Si pensi, ad esempio, alla centralità di Taipei all’interno delle catene per la fornitura di semiconduttori.

Secondo quanto riportato dal Taipei Times, Taiwan ambirebbe a partecipare al framework economico avanzato da Biden e avrebbe tutti i requisiti per accedervi. Al momento, tuttavia, Washington preferisce portare avanti la collaborazione con l’isola in campo economico a livello bilaterale, attraverso l’appena lanciata US-Taiwan Initiative on 21st Century Trade, ed il meccanismo noto come Trade and Investment Framework Agreement, riavviato lo scorso anno.

A mio avviso, l’assenza di Taiwan dall’IPEF è semplicemente riconducibile al suo status legale irrisolto. Da un lato, Washington vuole mostrare cautela per evitare l’aggravarsi delle tensioni con Pechino. Invitare apertamente Taiwan a far parte dell’iniziativa potrebbe infatti essere interpretato dalla Cina come una presa di posizione degli Stati Uniti se non, addirittura, una contravvenzione alla One China Policy. Pertanto, la partecipazione di Taiwan susciterebbe sicuramente la forte opposizione di Pechino.

Ma Pechino non è il solo attore che gli Usa avrebbero considerato nell’escludere Taipei dall’iniziativa. Difatti, se Washington avesse invitato Taiwan a partecipare ad un framework economico già, di base, percepito come anticinese, avrebbe corso il rischio di compromettere l’avvio stesso dell’iniziativa. Questo perché molti dei Paesi aderenti all’IPEF, soprattutto quelli del Sudest Asiatico, non vogliono essere coinvolti nelle tensioni tra Washington e Pechino. Pertanto, è probabile abbiano delle riserve a partecipare a un framework americano che includa Taipei, ma non la Cina.

La difesa di Taiwan

TADF: In quella occasione il presidente Joe Biden, rispondendo ad una domanda, lasciò intendere che gli Usa sarebbero pronti ad intervenire direttamente in difesa di Taiwan in caso di attacco cinese (dichiarazione dopo qualche minuto corretta dalla Casa Bianca), facendo parlare di superamento della “ambiguità strategica” che da sempre ha contraddistinto l’atteggiamento Usa su Taiwan. A prescindere dalle parole, ritiene che gli Usa interverrebbero militarmente in difesa di Taiwan? E il Giappone?

ADE: La dichiarazione di Biden riguardo a un intervento americano in supporto di Taiwan non è una novità. Il presidente americano aveva già rilasciato dichiarazioni simili ben due volte. Queste dichiarazioni sono state subito corrette dalla Casa Bianca e descritte come una gaffe del presidente. In realtà, a mio avviso, si tratta di una risposta calcolata piuttosto che di una gaffe.

Per “ambiguità strategica” si intende la mancanza di chiarezza nella risposta di Washington a un’eventuale crisi nello Stretto di Taiwan. Di fatto, la decisione di intervenire o meno a favore di Taiwan non sarebbe automatica, ma nemmeno da escludere a priori. Si tratta di un approccio dettato dalle circostanze in cui venne concepito. Dietro all’ambiguità strategica, vi era infatti la duplice necessità di dissuadere da un lato un’azione di forza cinese, dall’altro una dichiarazione di indipendenza taiwanese.

Seppure sulla carta l’ambiguità strategica continui a essere una componente importante della politica statunitense verso Taiwan, il panorama internazionale in cui questa è oggi inserita è profondamente diverso. È probabile quindi che, seppur non rappresentando la fine vera e propria dell’ambiguità strategica, i commenti di Biden riflettano la possibilità che l’amministrazione Usa stia probabilmente vagliando tale opzione. 

A prescindere dall’ambiguità strategica, a mio avviso un intervento militare in caso di una crisi a Taiwan non sarebbe così improbabile. Innanzitutto, Taiwan gode di un sostegno bipartisan e, nel corso dell’ultimo decennio, i legami tra Washington e Taipei sono stati approfonditi, soprattutto durante l’amministrazione Trump.

Taiwan è ben vista anche nell’opinione pubblica americana. Secondo un poll dello scorso gennaio, il 58 per cento degli elettori americani sarebbe a favore dell’utilizzo di asset militari a supporto di Taiwan. C’è poi da considerare il fatto che un mancato intervento sarebbe in contraddizione con l’intera Asia policy di Washington e avrebbe gravi ripercussioni sulla posizione di cui gli Usa godono in Asia.

Un intervento militare americano sarebbe ancora più probabile se accompagnato dal supporto degli altri alleati americani nella regione. Primo fra tutti il Giappone che sembra stia lavorando proprio con Washington alla stesura di un piano operativo in prospettiva di uno scenario di contingenza nello stretto di Taiwan.

Viste le restrizioni costituzionali e legali, Tokyo offrirebbe supporto logistico attraverso la fornitura di munizioni e carburante. La classe politica giapponese si è recentemente espressa sempre più a favore di Taiwan, sottolineando come una crisi nello stretto sia strettamente collegata alla sicurezza e stabilità del Paese.

Queste dichiarazioni sembrano, quindi, indicare che l’uso della forza da parte di Pechino contro Taiwan ricadrebbe nelle condizioni necessarie per attivare le forze di autodifesa giapponesi. Un intervento di Tokyo non significa che il Giappone invierà truppe a Taiwan. Come dimostrato dal suddetto piano, lo scenario più probabile è che il Paese fornisca supporto tangenziale: supporto logistico, assistenza nella difesa di basi e asset americani, operazioni di intelligence e ricognizione.

Il riarmo del Giappone

TADF: A che punto è il riarmo del Giappone e gode di un adeguato sostegno dell’opinione pubblica giapponese?

ADE: Più che di riarmo vero e proprio, sarebbe meglio parlare di un’estensione delle funzioni e capacità delle forze di autodifesa giapponesi. Questo perché nonostante le varie restrizioni costituzionali e legali, e sebbene il Giappone non abbia tradizionalmente allocato più dell’1 per cento del proprio Pil per la difesa, le Self Defence Forces (SDF) sono già da anni tra le forze più tecnologicamente avanzate al mondo. Ad esempio, si classificano al quinto posto nei ranking di Global Fire Power.

Si parla di riarmo perché il Paese si è tradizionalmente dotato di capacità difensive, ma non di quelle offensive e di proiezione. Sotto la guida dell’ex premier Abe Shinzō, sono state intraprese una serie di riforme che hanno permesso sia un ampliamento delle funzioni che delle capacità militari del Paese.

Dal 2015, le SDF possono, ad esempio, esercitare il diritto di autodifesa collettivo, purché sempre entro i limiti previsti da tre scenari specifici, e possono fornire supporto logistico agli Usa e ad altri Paesi impegnati in operazioni concernenti situazioni che possano avere un impatto sulla sicurezza del Paese. Proprio lo scorso anno, una nave giapponese ha scortato per la prima volta una fregata australiana durante delle esercitazioni congiunte.

Oltre a questioni puramente legali, il governo giapponese ha proceduto con l’incremento progressivo del budget di difesa che lo scorso anno ha oltrepassato l’1 per cento del Pil. L’attuale governo ha addirittura proposto come target il 2 per cento, un incremento significativo che però sarà probabilmente perseguito in maniera graduale piuttosto che nel breve termine, viste le difficoltà economiche che il Paese si trova ora ad affrontare.

Per quanto riguarda invece le capacità militari, sono diverse le iniziative portate avanti. Significativa è la conversione delle portaelicotteri classe Izumo e Kaga in portaerei in grado di operare F-35B, che dovrebbe essere ultimata entro la seconda metà del decennio. Fondamentale è anche il rafforzamento delle capacità di sorveglianza e missilistiche soprattutto quelle dispiegate in Hokkaido e nelle isole Ryukyu, alla luce del crescente pericolo nordcoreano e delle incursioni cinesi.

La bozza della nuova National Security Strategy presentata dal partito di governo ad aprile include inoltre una questione delicata, ovvero l’introduzione di capacità di attacco missilistico preventivo contro basi nemiche in qualità di capacità di contrattacco. Il dibattito attorno a questa proposta si è intensificato quando nell’estate del 2020, il Giappone annunciò la sospensione del progetto per la realizzazione di un sistema antimissile Aegis Ashore.

L’attuale primo ministro Kishida si è varie volte dichiarato a favore di queste capacità di contrattacco. Il dibattito a riguardo va, però, a inserirsi nel contesto della legalità costituzionale di questa tecnologia. Data la linea sottile che separa capacità offensive da quelle difensive, la proposta solleva dubbi sulla tradizionale politica del Paese esclusivamente orientata alla difesa, che tuttora rappresenta il cardine centrale dell’approccio nipponico.

L’opinione pubblica giapponese si è spesso mostrata restia a qualsiasi mossa del governo di estendere le funzioni e capacità militari del Paese. Le leggi per la sicurezza del 2015 sono state, ad esempio, approvate nonostante un clima di forte opposizione. Il comportamento assertivo di Pechino e Mosca e la crescente incertezza riguardo al programma missilistico e nucleare di Pyongyang stanno però avendo un impatto profondo sui cittadini giapponesi.

Secondo un opinion poll condotto ad aprile dal quotidiano conservatore Yomiuri Shimbun, il 64 per cento dei rispondenti sarebbe a favore di un rafforzamento delle capacità di difesa del Paese. Questo dato è supportato anche da un sondaggio della testata liberale Asahi Shimbun, in cui la percentuale a favore supererebbe il 60 per cento degli elettori.

La situazione è più complessa quando si parla di capacità di contrattacco, su cui l’opinione pubblica giapponese tende a mantenere posizioni divergenti. Secondo lo Yomiuri, sia i rispondenti a favore che quelli contrari a tale proposta sarebbero il 46 per cento.

Questi dati suggeriscono che il governo di Tokyo si trova ora ad aver maggior libertà di manovra per quanto riguarda il cosiddetto riarmo del Paese, purché questo sia formulato ed espresso in funzione difensiva.

Non se, ma quando

TADF: Quali sono gli scenari di Tokyo riguardo un possibile attacco di Pechino per riprendere il controllo di Taiwan? Viene ritenuto imminente, nel lungo periodo, o improbabile?

ADE: La leadership giapponese ha espresso preoccupazioni riguardo una possibile crisi nello Stretto di Taiwan, soprattutto in seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina. Il primo ministro Kishida, e altri rappresentanti del governo di Tokyo, hanno parlato del rischio che un conflitto armato simile a quello ucraino possa avere luogo anche in Asia. Tale percezione è condivisa dall’opinione pubblica giapponese la cui maggioranza (ben l’86 per cento) ha espresso simili preoccupazioni in un recente opinion poll.

Il paragone tra Taipei e Kyiv è problematico in quanto esistono delle differenze fondamentali tra i due casi. Va però sottolineato che le dichiarazioni giapponesi sono solo l’ultimo esempio di una serie di affermazioni più schiette pronunciate nel corso degli ultimi due anni riguardo la questione di Taiwan.

Il fatto che diversi rappresentanti di alto livello abbiano più volte esposto un chiaro collegamento tra una possibile crisi nello stretto e la sicurezza giapponese sembrerebbe indicare che, agli occhi di Tokyo, il rischio di un attacco da parte di Pechino sia oggi maggiore.

La percezione che sembra prevalere è che il Partito Comunista Cinese (PCC) parrebbe sempre più risoluto e determinato a portare a termine la riunificazione con Taiwan. Per Tokyo, quindi, l’interrogativo principale non è se Pechino attaccherà, ma quali siano le tempistiche di un’invasione.

Secondo diversi esperti giapponesi, è improbabile che la Cina cerchi di riprendere il controllo di Taiwan nell’immediato periodo, viste le problematiche domestiche che il PCC si trova attualmente ad affrontare. Vi sono inoltre una serie di date importanti che potrebbero influenzare le scelte di Pechino.

Innanzitutto, Xi guarda al congresso del partito che si terrà nell’autunno di questo anno e che, con tutta probabilità e salvo sorprese, gli assicurerà il terzo mandato. Vi sono poi le elezioni presidenziali a Taiwan e negli Stati Uniti, entrambe nel 2024. I risultati di queste due elezioni potrebbero orientare le scelte di Pechino in una direzione o nell’altra.