Esteri

La fronda anti-Netanyahu della sinistra ha incoraggiato i nemici di Israele

Una demonizzazione tale da dipingerlo come minaccia peggiore del nemico esterno. Il segnale proiettato, amplificato dai media, è di un Paese debole e diviso

Benjamin Netanyahu Israele guerra

“Israele è unito”, di fronte all’attacco di Hamas. O no? A giudicare dalla stampa israeliana di sinistra: no. Haaretz, principale quotidiano della sinistra israeliana, considerato il più autorevole fra i media in lingua ebraica, ha pubblicato, nel primo giorno di guerra, un editoriale in cui tutta la colpa viene attribuita al premier Netanyahu.

Le accuse a Netanyahu

La critica alla gestione dell’intelligence, che non è riuscita a prevenire l’attacco, è giusta. Anche se francamente è il giorno sbagliato per parlarne. Anche dopo Pearl Harbor e dopo l’11 Settembre si è atteso almeno qualche giorno prima di parlare del fallimento dei servizi segreti e delle rispettive amministrazioni. Haaretz, però, va oltre. Secondo l’autorevole quotidiano di sinistra, infatti, la causa stessa della guerra è Netanyahu. Perché? Perché ha nominato estremisti nel suo governo, ha “portato avanti politiche di occupazione” a favore dei coloni nei Territori, ha “ignorato i diritti dei palestinesi”.

Pur non essendo israeliani, possiamo già pacificamente affermare che si tratta di accuse pretestuose, considerando soprattutto che Gaza è completamente priva di coloni israeliani dal 2005, anno in cui il premier Ariel Sharon si era ritirato unilateralmente dalla Striscia. Hamas inoltre non ha mai voluto negoziare sui territori, non è un partito laico, non è nazionalista, non ha interesse a ottenere concessioni: vuole distruggere Israele e gli ebrei, in qualunque circostanza.

Se poi, come è emerso dall’inchiesta del Wall Street Journal (come riporta Federico Punzi su queste colonne) il via libera all’attacco è arrivato da Teheran, possiamo ben capire che i “diritti dei palestinesi” che Netanyahu avrebbe ignorato, sono in fondo alla lista delle cause dell’attacco.

La spaccatura interna non aiuta

Editoriali come quello di Haaretz, ma non è sicuramente l’unico, sono rivelatori della spaccatura interna alla società israeliana. Ed è quella, semmai, la vera causa dell’attacco. Hamas, così come l’Iran, sapevano di colpire in un momento in cui Israele era debole e divisa più che mai. Non sappiamo (e non sapremo ancora a lungo) perché i servizi segreti migliori del mondo non siano riusciti a capire in tempo i segnali dell’attacco. Però la lotta politica interna allo Stato ebraico non ha aiutato.

Qual era la narrazione dominante nella stampa israeliana, soprattutto quella di sinistra, fino al giorno dell’attacco? Una narrazione in cui Netanyahu era considerato la maggior minaccia alla democrazia, Ben Gvir e Smotrich (i due leader dell’estrema destra) le maggiori minacce alla sicurezza nazionale, mentre all’opinione pubblica si chiedeva una mobilitazione permanente e militante contro la riforma della magistratura.

I media e i partiti di opposizione, centristi, laburisti e destra anti-Netanyahu, hanno agitato la piazza per quasi un anno di fila: centinaia di migliaia di persone in piazza, presidi permanenti, picchetti e scioperi. Per la prima volta, hanno scioperato anche riservisti, soprattutto dell’aviazione. Piccoli numeri, non in grado di compromettere la sicurezza nazionale. Ma il segnale ai nemici di Israele intanto è stato lanciato: nemmeno l’esercito è fedele a questo governo. Come abbiamo visto sabato, qualcuno ha preso nota, a Teheran e a Gaza.

La demonizzazione permanente

Le manifestazioni, la libertà di espressione dell’opposizione, il diritto di assemblea, sono il sale della democrazia. Sono le caratteristiche che ci distinguono dalle dittature. Come nella barzelletta raccontata da Reagan, in piena Guerra Fredda, il cittadino americano è libero di manifestare davanti alla Casa Bianca inneggiando alla sconfitta del presidente americano e il cittadino russo è libero di manifestare davanti al Cremlino inneggiando alla sconfitta… del presidente americano.

Ma il fenomeno a cui abbiamo assistito in Israele è qualcosa di diverso e di peggiore rispetto al normale funzionamento di una democrazia matura: è stata una continua e assordante propaganda di demonizzazione del governo, fino a dipingerlo come una minaccia peggiore del nemico esterno. Finché il nemico esterno non si è materializzato, in tutta la sua inumana brutalità.

Il giornalista militante

E c’è un responsabile principale di questa guerra interna, una figura collettiva ben nota: il giornalista militante. Quello che vive la sua redazione come una trincea, vuole combattere contro la destra e non ferma la sua guerra personale nemmeno se la sua nazione è in guerra. Il giornalista militante è una figura che ha preso sempre più potere dal ’68 in avanti, ma è dilagato con l’inizio del millennio, con l’era dei social, dunque in un periodo in cui la comunicazione punta sulle tifoserie di poche parole e molta rabbia.

Il giornalismo militante è la malattia delle democrazie mature. Lo abbiamo già visto negli Stati Uniti, durante la guerra al terrorismo. Nei mesi precedenti all’11 Settembre, la sinistra mediatica demonizzava l’amministrazione Bush, considerata illegittima e vincitrice di elezioni considerate fraudolente. L’11 Settembre ha riunito il Paese, ma solo per pochi mesi.

Caccia al nemico interno negli Usa

Già nel 2002 è ricominciata la demonizzazione dell’amministrazione Bush e dalla guerra in Iraq (2003) anche la mobilitazione permanente delle piazze di sinistra. La narrazione mediatica ha identificato l’amministrazione repubblicana come un nemico peggiore rispetto al terrorismo islamico che aveva appena fatto strage di americani. E addirittura come “causa” dell’odio islamico contro l’America. Questo spiega perché gli Usa si siano ritirati dall’Iraq nel 2011 e dall’Afghanistan nel 2021, senza aver ottenuto risultati sensibili, ma senza neppure aver perso una sola battaglia. Apparendo sconfitti nella guerra al terrorismo.

La lezione non è stata imparata. L’amministrazione Biden, per prima cosa, ha definito gli estremisti di destra come una minaccia alla sicurezza nazionale peggiore rispetto al terrorismo islamico. L’FBI pare più concentrata a dare la caccia al “terrorista interno” che non ai potenziali autori del prossimo 11 settembre. Quando e se ci dovesse essere, si chiederanno come mai davano la caccia al miliziano Boogaloo in camicia hawaiana, al manifestante col berretto MAGA e al pick-up con bandiera confederata invece che al terrorista islamico della porta accanto che preparava la strage vera, sotto il naso degli agenti.

La destra sta purtroppo imparando la lezione sbagliata, adottando un atteggiamento speculare e contrario a quello di sinistra. Come abbiamo visto la settimana scorsa, una importante minoranza isolazionista ha votato per sabotare l’invio di aiuti militari all’Ucraina, soprattutto perché sono voluti dall’amministrazione democratica.

E almeno i media di destra più populisti (da Tucker Carlson in là) fanno da ripetitori alla propaganda russa, per contestare l’amministrazione democratica. Esattamente come i media di sinistra hanno fatto da ripetitore della propaganda islamica (dei Fratelli Musulmani, soprattutto), per contestare le amministrazioni repubblicane.

I nemici ne approfittano

Il segnale che Israele ha proiettato all’esterno, amplificato dai media internazionali, è quello di un Paese diviso e debole. I suoi nemici ne hanno subito approfittato. Gli Usa stanno lanciando esattamente lo stesso segnale sbagliato. I suoi nemici, Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, più i loro alleati nel “Sud globale”, stanno prendendo nota, aspettando il momento giusto per saltare alla gola degli americani. Ed è un problema anche nostro, di tutto il mondo occidentale.