Esteri

La minaccia di Putin e la necessità di pensare l’impensabile

La pace è fatta di equilibri rischiosi, non di resa al bullo di turno, come insegna l’azzardo di Reagan. Resta valido il più antico ma vero paradosso: Si vis pacem, para bellum

Putin guerra © Oleg e Jannoon028 tramite Canva.com

È ancor lungi da spegnersi la eco delle parole che Vladimir Putin pronunciò il 29 febbraio nel suo discorso alla Russia. Senza aggiungere nulla a vecchie argomentazioni, l’autocrate democratico del Cremlino, parlando dell’Occidente, disse:

Ha iniziato a parlare della possibilità di inviare contingenti militari della Nato in Ucraina. Ricordiamo il destino di coloro che in passato hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese. (…) tutto quello che l’Occidente sta escogitando porta veramente alla minaccia di un conflitto con armi nucleari e quindi all’annientamento della civiltà (…) Comprendiamo che l’Occidente sta cercando di trascinarci in una corsa agli armamenti, logorandoci e ripetendo il trucco a cui riuscirono negli anni ’80 con l’Unione Sovietica.

La guerra necessaria

Beh, cosa ha detto di strano Putin? Nulla! Che l’aggressione del 24 febbraio non sia mai stata considerata una guerra è auto evidente dal primo giorno; essa, infatti, venne chiamata “operazione militare speciale”. L’Ucraina non era degna di una guerra, perché la sua sovranità non era considerata effettiva, ma solo formale (come era solo formale la presenza dell’Ucraina nel consesso delle Nazioni Unite dall’ottobre 1945).

Ad essa era concesso esporre bandiera, ma solo come un vassallo e come tale deve agire, così come fece Janukovyč, deposto da presidente a furor di popolo nel 2014. Piuttosto sono l’Occidente e l’illegittima cricca di Kyiv che vogliono portare alla guerra la Russia, ostacolandone le rivendicazioni. Tralasciando i giustificazionismi degli antioccidentalisti nostrani (tanto vanesi, quanto inutili) è utile ricordare un decisivo passo di Clausewitz – autore tanto citato, quanto poco studiato – laddove scrisse:

La guerra è più necessaria al difensore che al conquistatore, perché è un’invasione che ha provocato la prima difesa, e con essa la guerra. Il conquistatore ama sempre la pace (…) e pretenderebbe entrare tranquillamente e senza opposizione nel nostro Stato; ora noi dobbiamo volere la guerra, e quindi prepararla, appunto per impedirglielo. In altri termini, significa che sono precisamente i deboli, coloro cioè che sono esposti a doversi difendere, che debbono sempre essere armati per non venire sorpresi. Ecco ciò che richiede l’arte della guerra.

Più chiaro di così! La guerra si basa su dei paradossi e gli studi strategici su essi si basano. È noto che dalla più remota antichità gli imperi si sono espansi più con la minaccia che con il reale uso della forza.

La frustrazione russa

Nella seconda metà del XX secolo, la Guerra Fredda non venne mai avvertita – in Occidente – come un conflitto effettivo, anche perché il conflitto bipolare non provocò né morti, né distruzioni, almeno, nella parte “buona” del mondo, ma si basò sull’equilibrio tra “persuasione” e “dissuasione”, non percepito dalla popolazione, intenta ad aumentare il proprio benessere personale, misurabile nella capacità di acquisto di beni voluttuari.

Questa guerra finì, senza un apparente perché, trascinando la potenza sovietica nel fango. L’Occidente non aveva vinto (questa la percezione in ampi strati del mondo accademico e politico), aveva perso l’URSS (e non la Russia). Finisce il “secolo breve”, “finisce la storia”, a citare famosi testi degli anni Novanta.

La storia non finisce e i secoli hanno sempre 100 anni. Questo banale ragionamento e la frustrazione della sconfitta subita (sconfitta senza scontro militare, la peggiore, la più umiliante) tormentò l’élite politica russa post-sovietica che dal 2008 tentò di riconquistare il potere perduto, con la crisi russo-georgiana. Tutto semplice, da manuale.

Lo spettro del conflitto nucleare

Ora, di fronte alla eventualità di un, invero improbabile, maggior intervento militare occidentale a fianco dell’Ucraina per evitare maggiori rischi di confronto militare con la Russia, come successe nel ’39, dopo l’umiliante accordo di Monaco, con la Germania (un altro paradosso), ecco che Mosca agita lo spettro dell’arma nucleare.

Come viene percepita questa minaccia, una volta tanto portata direttamente da Putin e non da Dmitry Medvedev, da due anni costretto al ruolo di “cattivo”? Nel Belpaese, oltre ai soliti noti che per gioco delle parti e successo mediatico amano vestire i panni dei pacifisti e degli antioccidentalisti di “bocca buona”, ecco infittirsi la schiera di commentatori non professionali intenti ad affrontare il tema con una pericolosa emotività.

Vittorio Sgarbi, in un appassionato intervento televisivo, disse: “non è che la vittoria significa che continuiamo ad armare Zelensky per andare avanti all’infinito. Sembrano bambini che giocano con il mondo. È una cosa intollerabile”. Nonostante la sua cultura vasta e raffinata, Sgarbi – e come lui molti altri – manca della conoscenza dei paradigmi del pensiero strategico.

Affermare che è intollerabile pensare ad una escalation del confronto è, in verità, un modo per renderla più prossima. Ecco che i paradossi si moltiplicano. Da quando esiste un’arma nucleare in mano a più attori politici si pensa che essa non possa essere utilizzata, perché potenzialmente in grado di portare ad una catastrofe planetaria. L’opinione pubblica occidentale si è sempre adagiata su questa convinzione e sulle dottrine che sostengono questo punto (il MAD).

Pensare l’impensabile

Anche in ambito accademico vi sono stati recenti abbagli in tal senso. In nessun altro modo potrebbe essere letto John Mearsheimer quando sostiene che una proliferazione orizzontale dell’arma nucleare sarebbe stato un elemento di stabilità nel mondo, perché patentemente non utilizzabile, senza riflettere che in una world arena composta di molti attori “nucleari”, la possibilità di vedere sorgere una “voce fuori dal coro” disponibile ad usare il nucleare cresce esponenzialmente. No! L’approccio corretto è pensare che quell’arma – in alcuni casi – è utilizzabile in modo strategicamente funzionale.

Nel lontano 1962 Herman Kahn, autore ormai dimenticato – se non per la sua parodia in “dr. Strangelove” – ma che influì ed influisce nel dibattito strategico da oltre sessant’anni diede alle stampe il lavoro “Thinking about the Unthinkable” (Pensare l’impensabile), riscritto nel 1984, con il quale imponeva il principio del paradosso della possibilità di condurre e di vincere una guerra nucleare.

Dopo di lui altri studiosi di dottrine strategiche, cioè gli unici ad avere le competenze necessarie ad affrontare il tema, suggerirono al lettore l’urgenza di fuggire da logiche fideistiche per calarsi nella realtà del rischio, partendo dal presupposto che i dubbi e le paure di un attore sono eguali a quelli del competitor.

Lo scudo spaziale di Reagan

Ma in realtà ciò avvenne mai? Sì! Quando Reagan annunciò il programma di difesa strategica (SDI), conosciuto ai più come “scudo spaziale”, quasi tutti i think tank americani, compresa la potentissima Rand Corporation, scrissero rapporti altamente riservati alla Casa Bianca sconsigliando quel progetto, costoso ed incerto che avrebbe costretto l’URSS a moltiplicare l’arsenale per “saturare” il sistema; cioè ponendosi la domanda: “E se non funzionasse?”.

Nel suo immaginifico azzardo Reagan capì che sulle rive della Moscova si facevano la domanda opposta: “E se funzionasse?”. La fine della storia è nota e l’allusione di Putin alla corsa agli armamenti che il blocco occidentale impose all’URSS, nel suo momento di crisi interna, si riferiva a quella fatale contesa tecnologica che contribuì a che l’URSS “scoppiasse”, come la rana di Esopo.

È fondamentale pensare l’impensabile ed agire di conseguenza se si vuole mantenere una pace vera fatta di equilibri rischiosi e di paure, anziché una pace che corrisponderebbe ad una resa al “bullo” di turno. La storia lo insegna. Cosa altro era la pax romana se non una condizione di conquista dove i legionari – per dirla con Tacito – “ubi solitudinem faciunt pacem appellant” (chiamano pace dove fanno desolazione e morte). Resta valido il più antico, ma vero paradosso: Si vis pacem, para bellum.

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