Esteri

La nostra Europa è quella del Discorso di Bruges, non di Ventotene

Il testo di Spinelli, Rossi e Colorni invecchiato malissimo, molti tratti negativi li ritroviamo nella Ue di oggi. Le parole della Lady di ferro profetiche nel prevedere i mali della costruzione europea

Tra il Manifesto di Ventotene e il Discorso di Bruges di Margaret Thatcher (20 settembre 1988, quasi quarant’anni fa) non dovrebbe esserci alcun dubbio su quale dei due sia invecchiato meglio, prevedendo i mali della costruzione europea. Noi preferiamo l’Europa che aveva in mente la Lady di ferro tratteggiando l’Europa che non voleva e che, purtroppo, si è puntualmente realizzata.

Il totem europeista

Si può ovviamente pensare il contrario, che sia il testo di Spinelli, Rossi e Colorni il più attuale e visionario, ma nessuna lesa maestà che giustifichi le reazioni scomposte della sinistra. Senz’altro rispettabile il contributo degli autori del Manifesto nel delineare un futuro possibile pur nell’ora più buia del nostro Continente. Ma proprio la necessità di contestualizzarlo implicitamente suggerisce che non dev’essere invecchiato benissimo.

Il problema è averne fatto oggi un totem, un testo sacro – perché serviva a colmare un drammatico ed emblematico vuoto, a fornire una base teorica e ideologica nobile all’accrocchio che è l’Unione europea – al punto che il solo criticarlo, citandone i passaggi più discutibili, suscita reazioni isteriche e addirittura il pianto di qualche deputato come se gli avessero ammazzato la madre.

Non c’è dubbio che l’Ue di oggi si specchia più nel Manifesto di Ventotene che nel Discorso di Bruges della Thatcher, che in effetti non nasceva come manifesto ma come monito sulla direzione che già allora veniva intrapresa. Fu un altro tornante della storia in cui le classi dirigenti italiane finirono per allinearsi ai disegni franco-tedeschi piuttosto che al pragmatismo thatcheriano e britannico. E vediamo tutti come è finita.

Certo, l’Unione federale immaginata nel Manifesto di Ventotene è ancora incompiuta e difficilmente lo sarà in futuro, per fortuna. Non è, questa, l’Europa che volevano gli autori del manifesto, ma la direzione verso cui l’europeismo ufficiale spinge è quella, travolto ormai il metodo funzionalista, in un contesto normativo intergovernativo che per ora regge, ma scricchiola sempre di più, puntellato politicamente soprattutto da Berlino.

Il tratto elitario

Tuttavia, non si possono non riconoscere nell’Ue attuale e nel processo di integrazione degli ultimi trent’anni tratti comuni con il Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni.

Una “rivoluzione” calata dall’alto; un “partito europeista” come élite rivoluzionaria che non stia a preoccuparsi troppo di cosa pensano i cittadini; la volontà popolare considerata un inutile orpello (peggio: “inesistente”), sulla base del presupposto che “nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”, è un “peso morto”, al punto di considerare persino la dittatura pur di dare forma al “nuovo ordine”, alla “prima disciplina sociale”.

L’unica attualità del Manifesto è in effetti proprio in questo tratto distintivo: nel tentativo di creare uno Stato o un super Stato europeo, le élites europeiste stanno sempre più sistematicamente mettendo da parte la legittimazione democratica, o aggirandola quando i cittadini europei si esprimono contro i loro indirizzi e ulteriori spinte integrazioniste. Non con il “polso fermo” auspicato da Spinelli, Rossi e Colorni, ma il tratto elitario è oggi ben presente ed evidente.

Rivoluzione socialista

In economia i tratti dell’Ue di oggi che ricordano il Manifesto di Ventotene sono quelli di una programmazione pluriennale di stampo socialista, di un dirigismo asfissiante e di una burocratizzazione galoppante che comprimono la libertà d’impresa, possibile “caso per caso”. C’è persino traccia del “liberismo” di Ernesto Rossi, la sua opposizione ad ogni forma di monopolio, ma recependo una concezione di monopolio di stampo otto-novecentesco, che risulta completamente anti-storica nell’epoca del digitale.

A leggere il Manifesto si ha l’impressione che gli autori cercassero più una rivoluzione socialista che federalista, nel senso che gli Stati Uniti d’Europa dovevano essere lo strumento della rivoluzione socialista, con la proprietà privata ridotta a gentile concessione “caso per caso”. Non sorprende che non riscosse l’entusiasmo dei partiti socialisti e comunisti dell’epoca, che credevano invece nella via nazionale alla rivoluzione.

Gli Stati Uniti d’Europa che sarebbero usciti da Ventotene sarebbero stati più simili ad una Unione sovietica dell’Europa occidentale, forse più soft, che agli Stati Uniti d’America.

La frettolosa liquidazione dello stato nazione

Anche la liquidazione dello stato nazionale appare fuori focus, superficiale. Sebbene il nazionalismo non sia immune da derive, storture ed eccessi, non va dimenticato che è con la nascita, e all’interno, dello stato nazione – e non a caso – che si sono affermate libertà politica e democrazia, ordinamenti liberaldemocratici che non ritroviamo altrove.

La vulgata che individua frettolosamente nello stato nazione il responsabile delle due guerre mondiali del ‘900 viene ripetuta ormai meccanicamente, come un dato storico incontestabile, la premessa rituale di ogni mozione degli affetti a favore degli Stati Uniti d’Europa. Eppure, anche qui gli autori del Manifesto di Ventotene buttavano il bambino con l’acqua sporca.

In realtà, la storia è più complicata di come viene raccontata. Sia la Prima che la Seconda Guerra Mondiale sono molto più il risultato, se vogliamo il colpo di coda, dell’imperialismo piuttosto che del nazionalismo. La Prima Guerra Mondiale è stata il canto del cigno dei vecchi imperi europei, che infatti non sono sopravvissuti, mentre la Seconda, sebbene lo stato nazione democratico ci abbia messo l’ingresso delle masse ideologizzate in politica, scaturisce dalla degenerazione del nazionalismo tedesco in senso imperialistico, il disegno di Hitler di voler soggiogare i popoli europei all’interno di un impero multinazionale a supremazia tedesca.

Prima dell’imperialismo hitleriano il nostro Continente aveva conosciuto un altro imperialismo scaturito da uno stato nazione, precisamente dalla patria dei diritti dell’uomo appena proclamati: l’imperialismo napoleonico.

Sebbene con metodi e finalità evidentemente diverse, chi pensa ad un super stato europeo multinazionale dovrebbe riflettere sul fatto che storicamente esperimenti del genere sono andati incontro a esiti non democratici e illiberali.

Il Discorso di Bruges

Preferiamo, dicevamo, l’Europa di stati nazionali del discorso pronunciato da Margaret Thatcher a Bruges nel lontano 1988, che ha avuto il merito di prevedere con almeno un paio di decenni di anticipo i mali di fondo dell’Unione europea, di cui in quegli anni venivano poste le basi.

Le parole della Lady di ferro appaiono davvero profetiche oggi: la Comunità europea non deve essere “un fine a se stessa, né un dispositivo istituzionale da modificare costantemente secondo i dettami di un concetto intellettuale astratto, né dev’essere fossilizzata da una regolamentazione senza fine“, “noi europei non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in controversie interne o arcani dibattiti istituzionali”. Esattamente quello che è accaduto e sta accadendo.

La Comunità europea per la Thatcher sarebbe dovuta restare uno “strumento pratico attraverso il quale l’Europa può garantire la futura prosperità e la sicurezza della sua gente in un mondo in cui ci sono molte altre nazioni potenti e gruppi di nazioni”. Come? Seguendo cinque principi guida.

Cooperazione e sovranità

(1) “Cooperazione attiva e volontaria tra stati sovrani indipendenti”. Al contrario, “cercare di sopprimere le nazionalità e concentrare il potere al centro di un conglomerato europeo sarebbe altamente dannoso e comprometterebbe gli obiettivi che cerchiamo di raggiungere. (…) Lavorare a più stretto contatto non richiede che il potere sia centralizzato a Bruxelles o le decisioni siano prese da una burocrazia designata”.

Anche questo, lo verifichiamo tutti i giorni. La Lady di ferro era convinta che la “fonte di vitalità dell’Europa attraverso i secoli” fosse nel suo pluralismo istituzionale, nella competizione creativa di nazioni diverse, per istituzioni, lingua e tradizione. “L’idea europea non è proprietà di alcun gruppo o istituzione”.

Pragmatismo

(2) “Se non siamo in grado di riformare le politiche comunitarie che sono palesemente sbagliate o inefficaci e che giustamente causano inquietudine pubblica, allora non potremo ottenere il sostegno dell’opinione pubblica per lo sviluppo futuro della Comunità”.

Questo passaggio sembra proprio un commento postumo della Thatcher alle follie del Green Deal e alle politiche immigrazioniste, il cui effetto è stato esattamente quello di erodere “il sostegno dell’opinione pubblica per lo sviluppo futuro” dell’Ue.

Libertà di impresa

(3) “La lezione della storia economica dell’Europa negli anni ’70 e ’80 è che la pianificazione centralizzata e un controllo capillare non funzionano mentre sforzo e iniziativa personali funzionano. Un’economia controllata dallo Stato è una ricetta per bassa crescita. (…) Il nostro obiettivo non dovrebbe essere una sempre più dettagliata regolamentazione dal centro; dovrebbe essere deregolamentare ed eliminare i vincoli al commercio”. Anche qui, i fallimenti della pianificazione e della regolamentazione Ue sono sotto gli occhi di tutti.

Sì alla circolazione di merci e persone, “ma è una questione di semplice buon senso che non possiamo assolutamente abolire i controlli alle frontiere se vogliamo anche proteggere i nostri cittadini dalla criminalità e fermare il movimento di farmaci, di terroristi e degli immigrati irregolari“. Non c’è bisogno di aggiungere altro, abbiamo fatto il contrario.

No al protezionismo

(4) “Sarebbe un tradimento se, mentre abbatte i vincoli al commercio all’interno dell’Europa, la Comunità dovesse erigere una maggiore protezione esterna. Dobbiamo garantire che il nostro approccio al commercio mondiale sia coerente con la liberalizzazione che predichiamo in patria”. Abbiamo aperto le porte dei nostri mercati ai rivali sistemici dell’Occidente, Cina e Russia, ed eretto barriere soprattutto non tariffarie nei confronti dei nostri principali alleati, gli Stati Uniti e il Regno Unito post-Brexit.

La difesa

(5) Quinto capitolo la difesa, di cui molto si parla oggi, guarda caso. “L’Europa deve continuare a mantenere una difesa sicura attraverso la Nato”. Ad essa (non all’Ue) “dobbiamo la pace che è stata mantenuta per oltre 40 anni”. “Dobbiamo sforzarci di mantenere l’impegno degli Stati Uniti per la difesa dell’Europa. E ciò significa riconoscere l’onere sulle loro risorse del ruolo mondiale che ricoprono e [riconoscere] il loro punto che i loro alleati dovrebbero sostenere l’intera parte della difesa della libertà, in particolare man mano che l’Europa diventa più ricca”.

Insomma, anche qui c’è poco da aggiungere, è precisamente, già quarant’anni fa, la questione di cui si discute oggi. Non c’è da sorprendersi, dopo decenni in cui gli europei si sono voltati dall’altra parte, se la nuova amministrazione Usa sta ricorrendo a metodi brutali.

“La Nato e l’Unione europea occidentale – aggiungeva la Thatcher – hanno da tempo riconosciuto dove risiedono i problemi della difesa europea e hanno indicato le soluzioni. Ed è giunto il momento in cui dobbiamo dare sostanza alle nostre dichiarazioni su un forte sforzo di difesa con un miglior rapporto qualità-prezzo”. Sono passati decenni e abbiamo prodotto solo chiacchiere.

Ma la Thatcher aveva già chiaro allora quale fosse il nodo: “Non è un problema istituzionale. È qualcosa di più semplice e profondo allo stesso tempo: è una questione di volontà politica e coraggio politico, di convincere le persone in tutti i nostri paesi che non possiamo contare per sempre sugli altri per la nostra difesa, ma che ogni membro dell’Alleanza deve assumersi una giusta quota del peso“. Le parole sono le stesse identiche di oggi: fair share of the burden.

La difesa europea “non come alternativa alla Nato, ma come mezzo per rafforzare il contributo dell’Europa alla difesa comune dell’Occidente”. E infine l’ultimo monito: “non dimentichiamo mai che il nostro stile di vita, la nostra visione e tutto ciò che speriamo di realizzare, sono garantiti non dalla giustezza della nostra causa, ma dalla forza della nostra difesa“.

Conclusioni

Come vedete, questo è un documento che non solo è invecchiato benissimo, al contrario del Manifesto di Ventotene, ma direi che è ancora una guida attuale su come dovrebbe essere l’Europa e al tempo stesso un giudizio impietoso sull’Unione europea di oggi, che è riuscita a diventare con precisione millimetrica l’esatto contrario di quanto profeticamente suggerito dalla Thatcher su ogni singolo aspetto.