Il capo supremo Xi Jinping ha delineato la nuova strategia militare della Repubblica Popolare per il prossimo futuro. Ne parla con dovizia di particolari l’agenzia ufficiale cinese Xinhua, secondo la quale la suddetta strategia si articola in 59 articoli e 6 capitoli.
“Azioni militari diverse dalla guerra”
Scopi ufficiali sono, tra gli altri, la protezione della vita e delle proprietà delle persone, la salvaguardia della sovranità nazionale, la sicurezza, il mantenimento della pace e della stabilità regionale.
Sin qui frasi piuttosto innocue. Ma subito dopo viene menzionata anche la “possibilità legale” di condurre “azioni militari diverse dalla guerra“, e allora un osservatore attento non può esimersi dal notare l’analogia con le parole di Vladimir Putin, che ha sempre evitato di chiamare “guerra” l’aggressione all’Ucraina definendola piuttosto “operazione militare speciale”.
I cinesi, si sa, sono molto abili nel confondere le acque. Tra le operazioni militari diverse dalla guerra vengono elencati i soccorsi legati a calamità di vario tipo, le attività di peacekeeping e gli aiuti umanitari. Tuttavia, dalle linee guida elaborate da Xi (o dai suoi collaboratori) si evince con chiarezza che i militari cinesi potranno essere inviati all’estero per prevenire i rischi di instabilità che potrebbero colpire la Repubblica Popolare.
Il nodo Taiwan
Non è certo difficile comprendere che in questo caso si parla – pur in modo velato – di Taiwan. In una serie di colloqui diplomatici di alto livello che hanno coinvolto esponenti di Washington e di Pechino, questi ultimi hanno più volte ribadito il concetto che “Taiwan è Cina”, senza lasciare alcuno spazio a mediazioni.
Gli americani, in questo caso, si trovano in una situazione difficile. Joe Biden ha dichiarato ufficialmente che gli Usa difenderanno in modo diretto la “Repubblica di Cina”, vale a dire Taiwan, in caso di aggressione da parte della Repubblica Popolare. Tuttavia Washington accetta la posizione di Pechino secondo cui esiste “una sola Cina” e, non a caso, intrattengono rapporti diplomatici con Pechino ma non con Taipei, i quali vennero interrotti dopo la visita di Nixon e Kissinger a Mao Zedong nel 1972.
Ne consegue che Taiwan non può proclamare la propria indipendenza pur essendo indipendente de facto. In altre parole, in caso di aggressione, gli Usa si troverebbero a difendere un Paese che neppure riconoscono come nazione autonoma secondo i canoni del diritto internazionale.
Ciò spiega la posizione minimale adottata dagli Stati Uniti, che si accontentano del mantenimento dell’attuale status quo. Riconoscono che c’è una sola Cina ma, al contempo, chiedono a Pechino di consentire a Taiwan di rimanere nel suo attuale stato di “limbo”: non indipendente, ma neppure attaccabile o occupabile.
Cina e Russia giocano di sponda
Bisogna però vedere fino a quando Xi Jinping, che dovrebbe ottenere un inedito terzo mandato durante il congresso del Partito comunista che si terrà in autunno, sarà disponibile ad accettare questa strana situazione.
Nel frattempo, nel colloquio telefonico avuto con il presidente russo mercoledì, Xi ha assicurato a Putin di sostenere la “sovranità e sicurezza” della Russia, mentre non ha reiterato i precedenti appelli al rispetto dell’integrità territoriale di “tutti i Paesi”, in quello che agli osservatori è apparso come il più esplicito sostegno manifestato da Pechino all’invasione russa dell’Ucraina.
Dunque, sorge il sospetto che, nonostante l’assai tiepido appoggio iniziale, Xi e Putin stiano giocando di sponda. Approfittando della debolezza di Biden e delle profonde divisioni che attraversano la società e il mondo politico Usa, i due autocrati – o, meglio, i due dittatori – progettano una spallata definitiva all’attuale ordine mondiale per sostituirlo con il loro.
Un ordine in cui le democrazie liberali (che alcuni definiscono “anglosassoni”) avrebbero un peso minore rispetto alle due autocrazie (o dittature) in fase di pieno attacco all’Occidente.