Esteri

La rappresaglia israeliana espone i piedi d’argilla di Teheran (e dei “realisti”)

Ad ogni minaccia la resilienza israeliana si tramuta in azione politica e militare, mentre i proclami del regime iraniano (e le tesi del “realismo strutturale”) si sgonfiano

raid Israele F35 (IDF) L'F-35 "Adir" israeliano

Alle ore 5,40 del 26 ottobre l’Idf (le forze armate israeliane) ha dichiarato di aver completato il suo atteso attacco aereo all’Iran. Dalle scarne notizie finora pervenute (ore 7,05) risulta che l’attacco sia iniziato all’1,26. Come noto l’operazione, altro non era che l’attesa rappresaglia in risposta ai missili balistici lanciati da Teheran il primo ottobre.

I raid israeliani

L’annuncio ufficiale dell’Idf – come riportato da Alessandro D’Amato su Open – è lapidario: “In risposta a mesi di continui attacchi dal regime iraniano contro lo Stato di Israele, sono in corso bombardamenti mirati su obiettivi militari in Iran da parte delle forze di difesa israeliane. Come ogni altro paese sovrano nel mondo, lo Stato di Israele ha il diritto e il dovere di rispondere. Le nostre capacità difensive e offensive sono completamente mobilitate”, affermano i militari. “Faremo tutto il necessario per difendere lo Stato d’Israele e il popolo d’Israele”, concludono.

Amir Bohbot, sul Jerusalem Post prima di delineare i contorni dell’attacco ricorda come l’operazione si è concentrata esclusivamente su obiettivi militari, evitando strutture nucleari e petrolifere per prevenire un più ampio allargamento del conflitto. Pare che l’attacco abbia coinvolto oltre 100 aerei, tra cui caccia stealth F-35 “Adir”, coprendo circa 2.000 chilometri.

Gli attacchi si sono concentrati su Teheran e Karaj. L’operazione è probabilmente iniziata con ondate iniziali che hanno attaccato i sistemi radar e di difesa aerea, aprendo la strada a successivi attacchi alle basi militari. In precedenza, un attacco coordinato in Siria ha neutralizzato minacce simili, impedendo all’Iran di acquisire consapevolezza della situazione dei piani di Israele. Di seguito Israele ha attaccato basi militari a ovest e a sud di Teheran.

Un alto funzionario israeliano ha riferito che “gli iraniani non sono riusciti ad abbattere i nostri missili”. Una seconda ondata è partita poco dopo le 3 del mattino. Esplosioni si sono avvertite nella città di Shiraz, nel centro-sud del Paese. La notizia non ha avuto al momento conferme ufficiali. Finora non sono state segnalate vittime israeliane e nessun danno agli aerei da guerra israeliani, ha detto spiegato una fonte ad Abc.

La reazione iraniana

La risposta del nemico? la Resistenza islamica in Iraq ha rivendicato – con una nota su Telegram – la responsabilità dell’attacco di un drone contro un “obiettivo militare” nel nord di Israele, che è avvenuto dopo l’annuncio di attacchi israeliani contro l’Iran. Insomma, nulla!

Appena terminato il raid israeliano, le forze di difesa aerea iraniane hanno comunicato che l’attacco “ha causato danni limitati” pur essendo stato intercettato. Un’ora dopo il comunicato dei militari l’agenzia ufficiale Tasnim, citando una fonte informata, afferma che l’Iran “è pronto a reagire all’aggressione israeliana come già annunciato in precedenza”. La fonte ha aggiunto che “non ci sono dubbi” riguardo al fatto che Israele riceverà “la risposta adeguata a qualsiasi sua mossa”.

Quale differenza con i roboanti proclami del 1° ottobre, quando Teheran ammoniva Israele a reagire al (fallito) attacco missilistico iraniano pena la distruzione di Tel Aviv. In quel giorno la foga retorica colse anche la guida suprema iraniana Khamenei, che ricorrendo a un bellicoso e retorico messaggio precisò: Le “persone giuste” potrebbero dover fare sacrifici, “ma non saranno sconfitte alla fine della giornata. Sono loro i vincitori sul campo”. Citando versetti del Corano Khamenei predisse, poi, una “imminente vittoria divina” dell’Iran.

Un sottile fil rouge unisce la retorica “nazional-islamica” dal 1948 ad oggi. In questi, quasi, ottant’anni, ecco sorgere il rais o l’ayatollah di turno a minacciare di spazzare via Israele dalla carta geografica; ecco che ad ogni minaccia, senza clamori e proclami, la resilienza israeliana si tramuta in azione politica e militare.

I piedi d’argilla di Teheran

L’azione israeliana e l’asciutta reazione di Teheran aprono a due riflessioni tra loro tanto parallele, quanto convergenti (per giocare con una antica immagine retorica italiana): perché l’attacco portato all’Iran, del quale non si sanno i reali target, non ha colpito i siti nucleare o gli asset petroliferi, colpendo al cuore la macchina bellica ed economica iraniana? Perché gli Stati Uniti si erano opposti? Poco probabile; a più riprese Israele aveva segnalato a Washington il suo diritto alla libertà di azione. Con maggiore possibilità Gerusalemme ha limitato l’attacco, tanto per evidenti ragioni “politiche”, quanto per la necessità di saggiare, su bersagli “tollerabili”, le capacità di risposta iraniana.

Se nessun aereo israeliano è stato intercettato è evidente che L’Iran è un colosso dai piedi (e non solo) d’argilla: un wannabe nell’arena internazionale. Non vi è nulla di peggio e di più delegittimante che mostrare di non essere quello che si vorrebbe essere (quale ironia e disprezzo sollevarono i proclami di Mussolini sugli “otto milioni di baionette”), soprattutto nel mondo islamico, dove l’Iran non potrebbe essere più isolato, sia dal punto di vista confessionale, sia dal punto di vista geopolitico.

Ecco, quindi, che Teheran modera la sua risposta, affermando che quello israeliano è stato un attacco senza conseguenze, per evitare di mettere in pratica una rappresaglia ancora più massiccia, con il rischio che anche questa venisse annientata da Israele e da forze “vicine”, come dimostrarono le batterie antimissilistiche americane e giordane il primo ottobre (185 droni, 110 missili balistici e 36 missili da crociera. Percentuale di intercettazione 99 per cento). Ciò nonostante una – comprensibile – apertura alla rappresaglia resta, per non essere costretti ad ammettere la sconfitta.

Il fallimento del “realismo offensivo”

Mentre i mezzi dell’Heyl Ha’Avir (l’aviazione israeliana) riposano, nuovamente nei loro hangar, la mente non può non andare alle parole dell’ineffabile Alessandro Orsini che il 13 aprile – dopo il primo attacco missilistico iraniano – disse:

L’aviazione israeliana è entrata nella leggenda per la sua guerra a sorpresa contro l’Egitto nel 1967, quando i suoi piloti distrussero l’aviazione nemica prima che si alzasse in volo. La situazione con l’Iran è completamente diversa. In primo luogo, l’Egitto dormiva quando ha subito l’attacco d’Israele nel 1967, mentre l’Iran resta sveglio 365 giorni all’anno nell’attesa di un bombardamento. Se gli aerei israeliani entrassero nei cieli iraniani, si ritroverebbero con centinaia di missili addosso. L’Iran è pieno di missili; si è preparato minuziosamente a un attacco aereo perché vive nella paura che avvenga all’improvviso… Per non parlare della capacità di ritorsione di Teheran. L’Iran ha risorse sufficienti per decenni di guerra. Israele per qualche settimana […] Israele non avrebbe nessuna possibilità di vincere una guerra con l’Iran in uno scontro frontale uno-contro-uno. Israele è un Paese minuscolo e senza risorse. Di contro, l’Iran ha una popolazione di 90 milioni di abitanti, risorse energetiche illimitate e una capacità missilistica spaventosa per il Medio Oriente.

Queste osservazioni andrebbero derubricate alla voce “intrattenimento”, visto che da due anni l’autore ha preso posizioni così poco scientifiche (ormai è quasi un paria nel mondo accademico) da essere una parodia di se stesso. Il loro interesse risiede sul fatto che nascono, come ultimo cascame, all’interno della scuola del “realismo-offensivo” che dagli anni Novanta ha preso piede, prima negli Stati Uniti, poi anche in Europa.

Come ricorda Dino Cofrancesco in un suo piccolo, ma significativo, contributo: “Quando il political scientist ignora la storia” il rischio, presso questa categoria di studiosi, è di innamorarsi troppo del modello a scapito del dato storico o dei fatti “sul campo”.

È noto che l’approccio del realismo offensivo prevede alcuni assunti base: il sistema internazionale è anarchico; le grandi potenze hanno capacità militari offensive; gli stati non possono mai essere sicuri delle intenzioni altrui, presenti e future; la sopravvivenza è l’obiettivo principale delle grandi potenze; e queste ultime sono attori razionali. Questi assunti portano alla conseguenza che l’unipolarismo è impossibile e che in un ambiente dominato da una potenza egemone, sempre vi saranno tentativi di fuga da questo modello prescritto.

Tutto ciò è giustissimo, fuorché il presupposto dell’assoluta razionalità degli attori. Come se, le esperienze personali dei decision makers e collettive delle comunità di appartenenza con le conseguenti influenze sui marcatori epigenetici non fossero tali. Si pensi al famoso contributo di Kenneth Walz su Foreign Affairs nel 2012 (l’anno prima della sua scomparsa) dal titolo “Why Iran Should Get the Bomb. Nuclear Balancing Would Mean Stability”.

In questo saggio l’autore auspicava che l’Iran di dotasse di arma nucleare, proprio perché questa arma – che generalmente viene considerata di “deterrenza” – in mano a Teheran avrebbe mitigato le tensioni nell’area. Teoria – sulla carta – ineccepibile, ma, come hanno evidenziato studiosi come Jervis, fragile in quanto tutta l’impostazione teorica del realismo offensivo e del realismo strutturale è sostanzialmente apodittica e non affronta il possibile fallimento del modello. Per fortuna queste elucubrazioni non trovano spazio nell’ambito della programmazione strategica.

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