Esteri

Prima parte

La storia di Nord Stream/1: come Ue e Russia tagliarono fuori l’Ucraina (e l’Italia)

L’Ue tedesca si fece volentieri convincere da Putin della necessità di gasdotti che aggirassero l’Ucraina, creando le premesse per le aggressioni russe

Esteri

Il gran gioco del gas comincia nel 1959, con i primi contatti fra industrie tedesche e Unione Sovietica: e furono i grandi gasdotti via terra ancora esistenti. Decenni dopo e con l’esaurirsi dei giacimenti olandesi ed il lento esaurimento di quelli del Mare del Nord, Gazprom stimava che, a domanda stabile, l’Europa avrebbe dovuto trovare altri 120 miliardi di metri cubi all’anno di gas entro il 2035. Divario teoricamente colmabile con lo LNG (gas liquefatto trasportato via nave), ma al prezzo di enormi investimenti e ad un prezzo finale tendenzialmente maggiore.

Alternative? Una, mastodontica: i giacimenti russi, quelli sfruttati e quelli da sfruttare. Con un vantaggio sopra tutti, la relativa vicinanza fisica: gestibile con gasdotto, anziché con il trasporto via nave (LNG). Un vantaggio invidiabile per l’Europa, rispetto all’Estremo Oriente.

Ma chi questi gasdotti doveva costruirli, la Russia, non li voleva lungo le vecchie tratte, disegnate quando ancora c’era l’URSS e il Patto di Varsavia. Bensì, lungo tratte nuove, che passassero quanto più possibile sotto il mare. Due, in particolare: uno sotto il Mar Baltico verso la Germania (Nord Stream 1), l’altro sotto il Mar Nero verso la Bulgaria (South Stream).

Vedremo ora come la Ue abbia fatto tutto ciò che era in proprio potere, per portare a compimento il primo gasdotto ed affondare il secondo.

Due gasdotti per aggirare l’Ucraina

Qui incontriamo l’Ucraina. Al tempo della sua proclamazione d’indipendenza, il 16 luglio 1990, dai suoi gasdotti passava non solo il gas consumato dalla stessa Ucraina, ma pure l’80 per cento del gas esportato dalla Russia in Europa. Il che implicava la necessità di negoziare, contemporaneamente, prezzi di vendita e tariffe di transito.

La Russia poteva sì interrompere le vendite all’Ucraina, ma era costretta a farvi comunque transitare il gas verso l’Europa sicché, in ritorsione, subiva la sottrazione di quanto si era rifiutata di vendere e, potenzialmente, pure l’interruzione del transito. Come risultato, i prezzi di vendita si mantenevano assai inferiori a quelli verso gli altri mercati europei. Ciò, a sua volta, disincentiva l’Ucraina: tanto a migliorare la propria bassa efficienza energetica, quanto a trovare nuove fonti di approvvigionamento.

In cambio, Mosca pretendeva la vicinanza politica dei governi di Kiev. Così, dopo che la cosiddetta rivoluzione arancione del 2004-05 aveva imposto alla presidenza il filo-americano Juščenko, il 1° gennaio del 2006 Mosca inviò attraverso i gasdotti ucraini solo il gas destinato agli altri mercati europei, così spingendo Kiev a sottrarre quanto a sé stessa necessario. Un accordo venne poi trovato ma non risolutivo, in quanto la forza negoziale dell’Ucraina rimaneva intatta.

Accadde così che il resto d’Europa si fece convincere della necessità di gasdotti che saltassero l’Ucraina, come ricorda puntualmente l’allora cancelliere Schröder. Sicché, l’8 settembre 2005 venne dato avvio al progetto di Nord Stream 1, nel quale Gazprom avrebbe avuto sia la proprietà che la gestione, facendo a mezzo con società a prevalenza tedesca.

Pochi giorni dopo Merkel vinse le elezioni e Putin prese a corteggiarla parlandole di Shtokman, un giacimento artico mostruoso (grande cinque volte il già mitico Zohr scoperto da ENI in Egitto, ma in mezzo allo scomodissimo Mare di Barents), del quale allora si progettava lo sfruttamento: ecco, per il nuovo gasdotto sarebbe passato quel gas lì, non il gas dei giacimenti in uso che già passava per l’Ucraina e, aggiungeva, “sai cosa significherebbe, per l’economia tedesca, se le forniture da quel giacimento le fossero garantite per i prossimi 50, o magari 75 anni?”. La sventurata rispose.

Forte di tanta benedizione, a quell’accordo ne seguì un secondo annunciato il 23 giugno 2007 sotto il governo Prodi e relativo ad un gemello minore di Nord Stream 1: South Stream. Pure qui Gazprom avrebbe avuto sia la proprietà che la gestione, facendo a mezzo questa volta con ENI.

Coi due gasdotti, Mosca otteneva un duplice vantaggio. Anzitutto, far rinunciare i Paesi destinatari alla diversificazione delle forniture ed al gas LNG (come oggi si accorge tardivamente Scaroni e sottolinea girando il coltello nella piaga Mincato).

Eppoi, poter trattare Kiev ed Ankara con maggiore libertà: Nord Stream 1 aggirava solo l’Ucraina, South Stream aggirava pure la Turchia. È vero, South Stream passava per le acque turche ma, in cambio, ad Ankara era stato promesso di prolungare un gasdotto italo-russo che la rifornisce direttamente (Blue Stream) con un tubo sino al Mediterraneo (il Trans-anatolico) … ma si trattava comunque di una via secondaria.

Tutto ciò indispettiva fortemente gli Stati Uniti, strutturalmente ostili al riavvicinamento fra Europa occidentale e Russia, nonché protettori sia di Juščenko che di Erdogan.

Ue e Russia legate per decenni

Così, fu a fini di convincimento che Mosca di nuovo, il 1° gennaio 2009, inviò attraverso i gasdotti ucraini solo il gas destinato agli altri mercati europei, di nuovo spingendo Kiev a sottrarre quanto a sé stessa necessario. E la Germania si fece convincere eccome.

La posa dei tubi iniziò il 9 aprile 2010 e Nord Stream 1 venne inaugurato trionfalmente l’8 novembre 2011, alla presenza dei primi ministri tedesco olandese e francese, Merkel, Rutte e Fillon (nella foto con Medvedev). Particolarmente memorabili le parole della prima: che Ue e Russia sarebbero rimaste legate, nella propria partnership energetica, per decenni.

La prima aggressione all’Ucraina

E cadevano i paraventi. Non solo Mosca disse la verità su Shtokman: dopo anni di rinvii, esso venne congelato e, da allora, se ne parla solo come possibile campo LNG … niente più gasdotto. Ma pure, Putin ammonì apertamente l’Ucraina: che la possibilità di trarre vantaggio dalla sua posizione esclusiva era finita.

Così, dopo che la cosiddetta rivoluzione di Euromaidan del 2013-14 aveva aperto la strada alla presidenza del filo-americano Porošenko, Mosca annesse serenamente la Crimea. Serenamente, in quanto Kiev non poté più minacciare di togliere del tutto il gas al resto d’Europa e dovette limitarsi ad un gesto simbolico (cessò di acquistarlo direttamente dalla Russia … bensì attraverso la Ue, perché alla fine sempre gas russo era).

Come l’Ue tedesca affossò South Stream

Il modo in cui la Ue reagì, ne mostrò la intima natura: quella di una mafia tedesca. Ragionevole sarebbe stato se avesse preso ad opporsi a qualunque nuovo gasdotto che corresse fuori dall’Ucraina. Invece no, si oppose solo a quello italiano.

Il 17 aprile 2014, il Parlamento europeo votò una mozione con la quale indicava che, “con l’obiettivo di ridurre la dipendenza Ue dal petrolio e dal gas russo … il gasdotto South Stream non debba essere costruito e che debbano essere messe a disposizione altre fonti di approvvigionamento”. Evitando accuratamente di far parola, né dell’esistente Nord Stream 1, né del suo futuro raddoppio.

Dipoi, la Commissione europea pretese di applicare la direttiva sul mercato del gas che, fra le altre cose, prevedeva la proprietà dei gasdotti fosse separata dalla gestione, ovvero comunque le prime due dall’utilizzo (unbundling). Direttiva che esisteva già al tempo della costruzione di Nord Stream 1 (pure qui Gazprom ha il 50 per cento) ma che era stata bellamente ignorata. Più precisamente, la Commissione prima sostenne che il disegno societario di South Stream non fosse aderente alla detta direttiva, poi invocò l’annessione della Crimea per sospendere i contatti con la russa Gazprom.

Nel frattempo in Bulgaria, dove sarebbe dovuto andare South Stream, era stato eletto Boiko Borisov, primo ministro pronto ad ubbidire. E così, il 30 novembre 2014, Putin ne annunciò l’abbandono: “se l’Europa non vuole realizzare questo progetto, non sarà realizzato”.

Dopo il danno, la beffa: il Turkstream

In compenso, Mosca si accordava con la Turchia per realizzare un nuovo gasdotto lungo il percorso di quello abbandonato, solo che sboccava nella Turchia europea, anziché nell’attigua Bulgaria: il Turkstream, inaugurato l’8 gennaio 2020. E il bello è che esso aggira l’Ucraina esattamente come la avrebbe aggirata South Stream: quindi, lo scopo del veto non può essere stato difendere l’Ucraina, bensì la Turchia.

Il colpo per ENI fu doppio in quanto, pochi mesi prima, Ankara aveva cancellato il gasdotto Trans-Anatolico prolungamento di Bluestream: la via secondaria di transito del gas russo attraverso la Turchia non serviva più, ora che Ankara aveva conquistato la via principale (Bluestream restò lì, come un’incompiuta, in attesa che ENI trovasse un compratore).

Berlino e Ankara vincono, Roma perde

Quindi, nella grande gara per accaparrarsi il gas russo, Berlino ed Ankara avevano vinto e Roma perso. Infatti, Bruxelles non volle mai recuperare il vecchio progetto, ma non si oppose né al tubo turco, né alla sua prosecuzione via terra verso la Bulgaria e la Serbia e l’Ungheria (non la Romania, perché quella è autosufficiente).

Essa è detta Balkan Stream, ma porta il nome ufficiale di Turkstream, per distrarre l’attenzione dal fatto di essere null’altro che il vecchio South Stream … con, di diverso, solo la sostituzione del ruolo pivotale della Bulgaria con quello della Turchia e delle società italiane con quello delle società turche.

Vabbè, poi alla Bulgaria venne dato pure un interconnettore con la Grecia, cioè un piccolo gasdotto (3 miliardi di metri cubi pari al consumo nazionale bulgaro, bidirezionale, opererà da settembre 2022), inteso a portarci il gas azero che arriva via terra dalla Turchia e il gas LNG che arriva via nave in Grecia.

Né mancò un parallelo ruolo per Washington. Molto lentamente, essa giunse a predisporre sanzioni per chi si rendesse complice della posa del gasdotto Turkstream … ma solo dopo che la tratta era già stata realizzata … dunque manifestamente allo scopo di impedire la posa di una eventuale deviazione verso la Bulgaria, che avrebbe saltato la Turchia. E che, per Washington, nessun possa posare un tubo che salti la Turchia, è stato dimostrato anche molto più recentemente.

Il raddoppio di Nord Stream

Tutto ciò creò oggettivamente un imbarazzo quando, il 19 giugno 2015, giunse il fatidico annuncio: Nord Stream sarebbe stato raddoppiato, con un progetto già bello pronto, battezzato Nord Stream 2. Perché la Crimea continuava ad essere annessa, anzi si era ribellato pure il Donbass e Putin era intervenuto pure in Siria.

Ma non solo, se Nord Stream 1 permetteva a Mosca di trattare Kiev con maggiore libertà, Nord Stream 2 le permetteva di tagliare Kiev del tutto fuori: invero, pure di attaccarla militarmente senza aver paura di vedersi interrotto l’export gasiero verso l’Europa (come abbiamo visto su Atlantico Quotidiano).

Ciò nonostante, la Commissione non rifiutò più di avere contatti con Gazprom, anzi. Prima il presidente della Commissione Juncker spiegò che alla Ue serviva “un rapporto pratico con la Russia”, poi Berlino specificò che si intendeva un accordo su energia e protezione degli investimenti, infine Juncker chiarì che l’unica condizione era la pace del Donbass … e tanti saluti a Kiev e alla Crimea.

Fortissima la pressione tedesca, della cancelliera Angela Merkel (che doveva farsi scusare per l’abbandono del nucleare, annunciato nel 2011 e terminato forse nel 2022) e dei propri alleati (2005-09 e 2013-2021) del partito di Gerhard Schröder, lui stesso nel frattempo assunto da Gazprom. Col raddoppio del gasdotto, l’obiettivo cambiava: non più semplicemente garantirsi da disordini in Ucraina, bensì costruirsi un hub imperiale del gas, come abbiamo spiegato su Atlantico Quotidiano.

L’accordo Putin-Obama, mediato da Merkel

Pure qui, è lecito ipotizzare un ruolo per Washington. Era accaduto che in Grecia fosse andato al potere Tsipras, col suo famoso referendum greco del 5 luglio 2015, che avrebbe potuto portare alla uscita di quel Paese dall’Euro. Si disse che Atene avrebbe proceduto, se avesse avuto il supporto finanziario della Russia e certamente quel supporto non venne offerto.

In cambio di cosa? Di un atteggiamento comprensivo rispetto alle esigenze russe in Ucraina. Esigenze che comprendevano molto plausibilmente Nord Stream 2. Insomma, un accordo fra Putin e Obama, mediato da Merkel: un accordo del quale nessuno ha mai parlato, ma sul quale Berlino ha poi fatto mostra di fare affidamento.

La sfuriata di Renzi

Al Consiglio europeo del dicembre 2015 si materializzò una strana alleanza fra gli orfani dei gasdotti via terra (Polonia e la Slovacchia, con le loro ricche commissioni di transito) e quelli di South Stream (Bulgaria, Ungheria, Italia). I primi insistettero ancora a lungo e persero; fra loro Slovacchia e Romania cercarono di agganciarsi a Turkstream con un loro tubo (Eastring) e, di nuovo, persero. I secondi vennero compensati con Turkstream, come abbiamo visto: tutti, tranne l’Italia.

Dell’Italia si ricorda una sfuriata di Renzi, unita al molto sostanzioso veto ai tre miliardi di euro della Ue che Berlino stava per regalare alla Turchia: ufficialmente per i rifugiati siriani ma, invero, per meglio impacchettare il regalo già fatto affondando South Stream. La posta era alta e, nelle settimane successive, Leuropa si occupò molto dell’Italia: prima con un attacco di Juncker, poi con l’aggressione di Bce a Monte dei Paschi … sicché Renzi seppe contentarsi di qualche buona parola di Putin e si fece zitto sul gasdotto. Perché la Ue è una mafia tedesca.

L’ultimo ostacolo: la direttiva Ue

Un problema più serio di Renzi era che pure Nord Stream 2, esattamente come South Stream, non fosse aderente alla menzionata direttiva sul mercato del gas. E fu così che, nel 2017-2018, prima i servizi legali della Commissione, poi quelli del Consiglio dell’Unione e il regolatore tedesco improvvisamente scoprirono che la detta direttiva non si applicava ai tratti di tubo fuori dalle acque territoriali … come se la mafia tedesca abbia creduto che le acque territoriali bulgare si estendano all’intera superficie del Mar Nero.

E non è finita. Perché, il fatto che la direttiva non si applicasse ai tratti di tubo fuori dalle acque territoriali, lasciava liberi i Paesi di transito di bloccarne la costruzione in quella sorta di acque territoriali più larghe che sono le zone economiche esclusive (ZEE). Sicché, quando venne il suo turno, la Danimarca (interessata per via dell’isola di Bornholm) cambiò una legge in modo da poterne meglio impedire la costruzione, poi guadagnò tempo imponendo di cambiare il tracciato del gasdotto tre volte.

E fu così che la Commissione propose un emendamento alla direttiva, Berlino concesse qualcos’altro a Parigi e, il 13 febbraio 2019, l’emendamento venne approvato: trasferiva autorità al regolatore de “lo Stato membro in cui è situato il primo punto di ingresso” … cioè la Germania, togliendo alla Danimarca il potere di opporsi.

Così, il 1° ottobre 2019 la Danimarca concesse il proprio permesso. E bisogna ammettere che la Ue abbia fatto tutto ciò che era in proprio potere, per portare il gas russo in Germania e in Turchia e solo in Germania e in Turchia. Tutto sarebbe andato liscio, se non fosse intervenuto Trump, come vedremo nel prossimo articolo.