Esteri

Le analisi invecchiate male dei “realisti” e il pregiudizio anti-occidentale

Il prof. Mearsheimer e i “realisti” alla prova della realtà. Nelle accademie premiato il pensiero anti-occidentale: chi non contesta l’Occidente, “non è di mente aperta”

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Gli scienziati hanno la testa dura. Gli scienziati sociali l’hanno praticamente inossidabile. Una tipica scena dei talk show in tempo di guerra è diventata quella del politologo (o presunto tale) esperto di “geopolitica” che sbaglia previsioni.

Poi viene invitato una seconda volta e piega la realtà alla sua teoria, per dimostrare che non aveva affatto sbagliato previsioni. Formula altre previsioni che vengono regolarmente smentite dalla realtà. E il giro ricomincia.

Il cinismo metodologico

Caso stranissimo vuole che tutti gli errori procedano in un’unica direzione: sono tutte previsioni rosee per la Russia e nefaste per l’Ucraina (e la Nato che la sostiene). L’Italia non è un caso unico: negli Usa c’è John Mearsheimer.

Dopo una serie di studi, indubbiamente seri, che lo hanno reso uno dei professori di relazioni internazionali più ascoltati, è balzato improvvisamente agli onori della cronaca nel 2007 con un libro squisitamente politico: “La Israel Lobby e la politica estera americana”, scritto a quattro mani con il collega Stephen Walt.

Negli Usa venne visto come un manifesto contro la politica di George W. Bush in Medio Oriente e soprattutto contro i neoconservatori, che erano ancora tenuti in gran conto dall’amministrazione repubblicana. Il libro, volendo riassumere all’osso, suggerisce agli Usa di abbandonare Israele al suo destino.

Se nessun presidente americano del secondo Dopoguerra lo ha ancora fatto, è solo perché la lobby pro-Israele (non solo ebraica, ma anche cristiana) si oppone per motivi che gli autori ritengono del tutto irrazionali. Perché la difesa di Israele è contro gran parte degli interessi degli Usa. Fu accusato anche di antisemitismo, ma non è un libro antisemita: è solo metodologicamente cinico.

L’arrampicata sugli specchi

Lo stesso cinismo metodologico, Mearsheimer lo sta applicando al caso dell’Ucraina, e dell’Est europeo in generale, di fronte alla minaccia della Russia, sin dal 2008. Ovviamente, secondo l’autore la Nato non avrebbe dovuto mai accettare l’adesione di tutti i Paesi del Patto di Varsavia e se la Russia è aggressiva è soprattutto a causa dell’“allargamento a Est” dell’Alleanza Atlantica.

Ma il realista andava oltre e fino al 24 febbraio riteneva che: Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina perché era contro i suoi interessi, dunque l’aggressività russa era più uno spauracchio creato dalla politica americana (ovviamente per promuovere i suoi interessi aggressivi) che una minaccia reale.

L’Ucraina è stata invasa. Mearsheimer, intervistato a otto mesi di distanza dall’invasione, stavolta non da un discepolo che lo ascolta come un oracolo, ma da un giornalista incalzante del New Yorker, Isaac Chotiner, batte ogni record di arrampicata sui vetri.

Basti un esempio di domanda e risposta. Domanda:

L’ultima volta che abbiamo parlato, lei mi ha detto: “La mia tesi è che [Putin] non ha intenzione di ricreare l’Unione Sovietica o di cercare di costruire una grande Russia, che non è interessato a conquistare e integrare l’Ucraina nella Russia. È molto importante capire che abbiamo inventato questa storia che Putin è altamente aggressivo ed è il principale responsabile della crisi in Ucraina”. Come pensa che questa argomentazione regga?

Cosa risponderebbe una persona normale, dopo otto mesi di invasione? “Scusi, ma non avevo la sfera di cristallo”. Invece, con grande sicumera, Mearsheimer:

Penso che sia ancora vera. A febbraio parlavamo del fatto che Putin fosse interessato o meno a conquistare tutta l’Ucraina, occuparla e poi integrarla in una Russia più grande. E non credo che ora sia interessato a farlo. Quello che è interessato a fare ora, e che non era interessato a fare quando abbiamo parlato, è integrare quei quattro oblast (province, ndr) nella parte orientale dell’Ucraina nella Russia. Non c’è dubbio che i suoi obiettivi si siano intensificati dall’inizio della guerra, il 24 febbraio, ma non al punto di voler conquistare tutta l’Ucraina. Ma è sicuramente interessato a conquistare una parte dell’Ucraina e a incorporarla nella Russia.

Da notare che i russi hanno cercato di prendere Kiev, la capitale. Non solo, ma da marzo ad oggi hanno perso il controllo di circa la metà dei territori che avevano conquistato. Dunque, avevano già intenzione di occupare solo la metà del territorio che avevano occupato, all’inizio della guerra? Altra domanda:

A febbraio mi ha anche detto: “L’argomentazione che l’establishment della politica estera degli Stati Uniti, e più in generale dell’Occidente, ha inventato ruota attorno all’affermazione che [Putin] è interessato a creare una Russia più grande”. Pensa che ora sia più interessato a questo?

Mearsheimer, che ha appena parlato dell’annessione (pardon: integrazione) dei quattro oblast, nega anche quel che ha appena detto, celando il concetto nei termini più astratti possibili:

No, ho pensato fin dall’inizio che questo conflitto sia una questione di equilibrio di potere. La saggezza convenzionale negli Stati Uniti è che non si tratta di equilibri di potere e che, in realtà, Putin è un imperialista interessato a conquistare l’Ucraina per renderla parte di una grande Russia. Non credo che sia così. Non credo che avesse o abbia ambizioni imperiali. Ciò che lo motiva è la paura che l’Ucraina diventi parte della Nato.

Però gli oblast sono stati annessi per decreto, dopo i locali “referendum”. La popolazione locale sta già subendo un violento processo di russificazione, fatto di rieducazione, distruzione della cultura ucraina, censura totale sui media. Ma non è Grande Russia, non è ambizione imperiale. No, è “questione di equilibrio di potere” (sic!).

Il problema è la scienza politica

Ci sarebbero tanti altri esempi di arrampicate sui vetri del professor Mearsheimer, addirittura arriva a smentire o quantomeno reinterpretare quel che dice lo stesso Putin. L’intervista è molto lunga e la potete trovare qui. Ma anche solo questi due sono rivelatori della mentalità dominante nelle accademie, di cui vediamo purtroppo tantissimi esempi nei dibattiti in televisione, da febbraio ad oggi.

Sarebbe facile e anche un po’ marxista, seguire la logica del “follow the money” e credere che questi professori siano a libro paga di Putin. Il giornalista del New Yorker, una testata progressista, prova a farlo (bombardando l’intervistato di domande sul suo incontro con Orban), ma non trova alcuna risposta. Non c’è bisogno di ricevere rubli, nella stragrande maggioranza dei casi, e non è questo il caso di Mearsheimer (fino a prova contraria). Il problema è nella teoria stessa.

Tom Nichols, docente del Naval War College ed esperto di Russia, ha perso il conto di tutte le previsioni errate dei suoi colleghi scienziati politici dall’inizio della guerra ad oggi. In un suo lungo thread su Twitter, coglie veramente l’essenza del problema:

”Da una trentina di anni, la scienza politica è ossessionata dall’essere scientifica. Dunque, una delle scienze umane si è stancata degli esseri umani. Era la grande ondata dei quantificatori, quando andavano di moda equazioni e grafici senza senso e “studi largamente comparabili”. (…) Ogni volta che c’era un gran numero di azioni ripetibili – come il voto! – si poteva fare un’importante analisi quantitativa. (…) Ma la pretesa di essere “scientifici” – o come la chiamavamo a volte, “l’invidia della fisica”ci è sfuggita di mano. A questo si aggiunge il dominio del “realismo” nelle relazioni internazionali, l’idea che gli Stati (e qui sto semplificando) siano fondamentalmente uguali tra loro e agiscano in base al loro numero e al loro potere. È una teoria che non è mai stata spiegata molto, ma che affascina gli studiosi. Perché queste due enfasi – matematica da una parte, realismo dall’altra – sono così potenti e distruttive? Sono seducenti perché sollevano gli studiosi da qualsiasi conoscenza dei settori di cui parlano. Non c’è bisogno di imparare le lingue o di acquisire conoscenze culturali. Così si hanno studi del tipo: “Esaminiamo la violenza settaria! Confronterò la Bosnia e l’Irlanda – non essendo mai stato in nessuna delle due – e codificherò gli ‘eventi violenti’ per creare ordinati fogli di calcolo”. Molti articoli pubblicati, ma poca conoscenza acquisita.

Il pensiero anti-occidentale

Resta da capire perché, però, gli errori degli scienziati politici, siano sempre a senso unico, cioè sempre previsioni e analisi in cui l’Occidente (e gli Usa in particolar modo) sono sempre visti come l’origine dei problemi internazionali, anche quando è la Russia che invade l’Ucraina e gli Usa non intervengono in guerra.

E qui ci tocca fare un discorso più intuitivo e se volete più fazioso. Ma va fatto: nelle accademie è premiato il pensiero anti-occidentale. Chi non contesta l’Occidente, “non è di mente aperta”. La giusta autocritica diventa autoflagellazione per questa parte di mondo e giustificazione continua per i suoi nemici.

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