L’elezione di McCarthy una fragile tregua, la “palude” non è riuscita a piegare i “ribelli”. Poteri dello Speaker limitati e guerra al “partito unico” della spesa al Congresso
Alla fine, dopo una serie di votazioni senza precedenti nella Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy è riuscito in qualche modo ad essere eletto Speaker, ricomponendo apparentemente la frattura tra l’establishment e l’ala più massimalista del Grand Old Party.
Uno spettacolo inconsueto che ha trasformato quella che, solitamente, è una nomina dove i partiti votano in blocco un candidato “sicuro”, in uno psicodramma collettivo. A far festa e spargere sale sulle ferite, ovviamente i Democratici e la stampa (una volta) mainstream, ormai penosamente ridotta a cassa di risonanza per le posizioni più estreme dell’Asinello.
Ci vorrà del tempo per comprendere tutte le conseguenze e le implicazioni di questo voto in qualche modo storico, ma possiamo intanto indagarne il dietro le quinte e provare a delinearne gli effetti nei prossimi mesi sul partito dell’Elefante e il sistema politico americano.
Il tramonto di Trump
Nonostante le risate sgangherate dei commentatori di Msnbc e Cnn, la spaccatura verticale all’interno del Gop è un segnale di vitalità per un partito che rischiava di uscire distrutto dalla mezza disfatta delle elezioni di midterm.
Dopo anni all’insegna del business as usual, il mantra che da sempre fa andare avanti la mostruosa macchina bipartisan delle lobbies di K Street e riempie le tasche di deputati e senatori, il vento sembra davvero cambiato.
A parte McCarthy e la dirigenza repubblicana, costretti a concedere parecchio ai “ribelli”, il vero perdente è un altro: Donald J. Trump. Dopo essersi schierato in maniera inequivocabile al fianco del candidato dell’establishment, la risposta dei “resistenti” è stata alquanto sprezzante.
Matt Gaetz, il nuovo eroe della base, ha rimandato al mittente le pressioni dell’ex presidente, che nelle ultime ore prima del voto finale si sarebbe attaccato al telefono provando a convincere i ribelli.
Alla fine, però, per risolvere lo stallo l’RNC è stato costretto a cedere a quasi tutte le richieste del Freedom Caucus, una disfatta per chi pensava di essere ancora in grado di mettere tutti in linea alzando la voce.
Le conseguenze per Trump rischiano di essere disastrose. Fino a pochi mesi fa il suo ruolo di kingmaker nel partito era incontrastato, come il controllo della base. La presa sulla pancia del partito sembra ormai un ricordo del passato. Nessuno si sarebbe mai sognato di rispondere picche a Trump, la cui suscettibilità è leggendaria.
Qualcuno, magari a Tallahassee, avrà osservato con attenzione questi sviluppi e, magari, starà cambiando idea sul da farsi da qui a qualche mese. La corsa per le primarie potrebbe quindi diventare molto più interessante.
Freedom Caucus più influente
Non si è visto, ma a giudicare dall’animazione inconsueta alla Camera e dal fatto che si sia quasi venuti alle mani, la pressione che il Freedom Caucus ha dovuto reggere è stata davvero alta. I rappresentanti della macchina repubblicana hanno usato tutte le armi a loro disposizione, dalle minacce alle pressioni sui finanziatori delle varie campagne elettorali, ma non sono riusciti a piegare gli irriducibili.
Se c’è chi, anche da piattaforme certo non di sinistra come Fox News, si è scagliato a corpo morto contro chi non si voleva piegare alla logica del mercato delle vacche e alla disciplina di partito, il fatto che questi nuovi paladini della base abbiano tenuto duro è un ottimo segnale sia per loro che per il futuro del partito in generale.
Come ha dichiarato Cory Mills, un neoeletto che ha appoggiato fin dall’inizio McCarthy, questo è “il bello della democrazia. Non sempre è elegante o ordinata ma è l’unico modo di andare avanti”.
Cosa hanno ottenuto i “ribelli”
A fargli sollevare il sopracciglio, però, il sospetto che molti fossero disposti a mettere a rischio l’agenda America First per tirare acqua al proprio mulino. “Se l’unica cosa di cui ti preoccupi è la commissione nella quale finirai, stai mettendo il tuo interesse sopra a quello del Paese”.
Posizione inappuntabile, ci mancherebbe, ma del tutto scollegata dalla giungla all’interno della Beltway. Chi ha tenuto duro fino in fondo, da Gaetz alla Boebert, è riuscito a portare a casa parecchi risultati concreti, impensabili fino a pochi giorni fa.
Secondo i bene informati basterà un solo membro della Camera per chiamare ad un voto di sfiducia nei confronti dello Speaker, regola peraltro vigente fino a pochissimi anni fa. Nelle commissioni chiave, incluso il Rules Committee, ci saranno più posti per i duri e puri, la spesa sarà congelata ai livelli (peraltro altissimi) del 2022.
Ma i successi del Freedom Caucus non finiscono qui. Dovrebbe essere indetta una commissione sullo stile di quella che, negli anni ‘70, scoperchiò il vaso di Pandora delle attività segrete di FBI e CIA per fare chiarezza sulla collusione con Big Tech e la persecuzione nei confronti di molti gruppi consevatori.
Ogni aumento del “debt ceiling” dovrà essere necessariamente abbinato a pesanti tagli alla spesa pubblica, ma la concessione che avrà più conseguenze all’interno del partito sarebbe il divieto per il super PAC di McCarthy di influenzare le primarie repubblicane, magari per vendicarsi dello sgarbo ricevuto.
Vittoria di Pirro
Onestamente una serie di risultati estremamente concreti che potrebbero limitare di molto lo spazio di manovra sia dello Speaker che dello stesso RNC, il che renderebbe questa una vera e propria vittoria di Pirro.
La cosiddetta “palude” ha molti modi per “convincere” anche i più ideologicamente puri ma, almeno stavolta, lusinghe o minacce non sono riuscite a piegare il Freedom Caucus. Quelli che molti avevano descritto come poco più che zotici trinariciuti sembrano aver imparato come esercitare il potere e vendere a caro prezzo la loro desistenza.
Magari non durerà, ma se riusciranno a serrare i ranghi e respingere al mittente i prevedibili patti faustiani, questo blocco di voti potrebbe fare la differenza parecchie volte da qui alla fine del 118° Congresso.
La guerra all’uniparty
Chi ha seguito la diretta del voto su C-Span avrà sicuramente notato come, anche dopo aver concluso un accordo estremamente positivo che potrebbe portare frutti ben graditi alla base, gli ex ribelli avessero un’espressione terrea mentre dichiaravano il proprio appoggio a McCarthy.
Se molti sono pronti a ricondurre tutto al solito teatrino della politica, in realtà era una mossa quasi obbligata per questi politici niente affatto improvvisati. Magari se leggete solo il New York Times o guardate solo la Cnn non ve ne siete accorti, ma all’interno della base repubblicana l’odio nei confronti della dirigenza del partito è ben oltre i livelli di guardia.
Il fatto che molti dei 20 ribelli avessero ricevuto ovazioni sui social media al grido di “never Kevin” dovrebbe far preoccupare molti dei dirigenti del partito, convinti di poter tornare tranquillamente all’epoca dei compromessi, del decoro istituzionale che maschera la volontà di portare avanti politiche in tutto in linea con quelle dei Democratici ma meno estreme.
La pazienza nei confronti del cosiddetto “uniparty”, il partito unico della spesa pubblica, è finita da un pezzo e molti stanno parlando dai mal di pancia all’azione. Visto che l’istinto primario di ogni politico è la sopravvivenza e permanere quanto più a lungo sugli scranni del parlamento, questo guanto di sfida lanciato senza paura dovrebbe far capire come il potere dell’establishment repubblicano sia ben lontano da quello dei tempi d’oro.
L’ira della base
Anche il soccorso di storici baluardi dell’informazione di destra come Sean Hannity della Fox News si è rivelato un boomerang, come ampiamente dimostrato dalle reazioni all’aspro scambio di opinioni con la deputata del Nevada Lauren Boebert. Altri, come l’influente commentatore Mark Levin, hanno invece scelto di glorificare il massimalismo di Chip Roy, deputato del Texas che è stato tra i pochi a non scendere mai a compromesso con la macchina dell’RNC.
Chi ha tenuto duro l’ha fatto scommettendo sul fatto che le prevedibili ripercussioni da parte dell’establishment sarebbero state preferibili allo scorno di una base altamente determinata a fare piazza pulita di una dirigenza che non ha portato che disastri al partito dell’Elefante.
Chi si è piegato troppo in fretta, come la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, che ha seguito il suo padrino politico Trump schierandosi a fianco di McCarthy, è stato crocefisso in sala mensa dai furibondi attivisti conservatori.
Dopo aver subito anni di censura di Big Tech, aver visto persone perbene perdere tutto per le proprie convinzioni politiche o religiose, la base non vuol più sentire parlare di appeasement o bipartisanship. Vogliono vendicarsi dei torti ricevuti e farla pagare a chi, anche nelle file del Gop, li ha presi in giro per riempirsi le tasche. Con gli animi così accesi, difficile che ci sia spazio per posizioni concilianti. La resa dei conti è davvero dietro l’angolo.
RNC, cambiare o morire
Se la prossima battaglia tra le due anime del Partito Repubblicano sarà sicuramente quella per il fondamentale regolamento della Camera dei Rappresentanti, la battaglia forse decisiva sarà quella che si giocherà all’interno del potentissimo Republican National Committee, deus ex machina della politica conservatrice a stelle e strisce.
La terza gamba del controllo dell’establishment repubblicano, assieme al leader della minoranza al Senato Mitch McConnell, è rimasta per diverso tempo nelle mani di Ronna McDaniel e la sua riconferma alla guida del centro nevralgico della destra americana sembrava quasi scontata.
Ad inizio dicembre la McDaniel aveva dichiarato di avere ricevuto il supporto di 108 dei 168 membri dell’RNC ma questo non ha impedito a Harmeet Dhillon, rampante membro del Gop della California, di lanciare il guanto di sfida.
Da quando ha reso pubbliche le sue tante perplessità su come il potente comitato sarebbe riuscito a strappare la sconfitta dalle fauci della vittoria nel programma di Tucker Carlson, re dei talk show politici della Fox News, sarebbero molti all’interno del partito a sostenere la sua candidatura.
L’uso dei fondi per le midterm
Il casus belli sarebbe stata la gestione scriteriata dei fondi destinati al sostegno delle varie campagne elettorali nel Paese, dove alcune gare decisamente promettenti sono state lasciate a corto di soldi, regalando quindi la vittoria ai Democratici.
A causare parecchi mal di pancia, le decine di milioni di dollari destinate allo scontro fratricida in Alaska, dove la candidata dell’establishment Lisa Murkowski affrontava un’altra repubblicana, appoggiata da Trump, Kelly Tshibaka. Alla fine la Murkowski l’ha spuntata, ma quei soldi avrebbero potuto far pendere l’ago della bilancia dalla parte del Gop in Nevada, Arizona o Georgia, dove i Democratici hanno trionfato per poche migliaia di voti.
Nell’ala America First si è diffusa la convinzione che McConnell e soci avrebbero preferito di gran lunga rimanere all’opposizione pur di impedire a troppi candidati scomodi di cambiare gli equilibri di forza all’interno del partito. Dopo quattro sconfitte sempre più dolorose, sarebbe giunto il momento di una netta sterzata e di cacciare a pedate i responsabili di questi clamorosi autogol.
Voglia di cambiamento
Non è dato sapere come stia andando la campagna della Dhillon, molto attiva nei media alternativi ed osteggiata da parecchie testate tradizionali. Bill Palatucci, membro dell’RNC del New Jersey, aveva dichiarato al Washington Times che “i membri del Comitato sono noti per essere in grado di guardarti negli occhi, prometterti sostegno eterno per poi tagliarti la gola quando si arriva alle votazioni”.
Il sostegno per la McDaniel potrebbe essere alquanto ballerino. Beth Campbell, rappresentante del Tennessee, aveva annunciato su Twitter che entrambi i membri del Volunteer State sono a favore di un cambio della guardia nel Comitato. A chiederglielo, ovviamente, la base repubblicana, stanca delle solite facce: “nessuno mi ha chiamato per sostenere Ronna McDaniel. I miei elettori vogliono il cambiamento”.
A far imbufalire la base sarebbero poi state le spese pazze dell’RNC, che spreca centinaia di migliaia di dollari in regali, fiori o banchetti luculliani, tanto che oltre il 40 per cento delle donazioni ricevute viene speso nella gestione ordinaria.
La Dhillon vuol fare piazza pulita, rendere il Comitato più snello, liberarsi dall’abbraccio mortale delle lobbies di Washington. Vaste programme, come avrebbe detto De Gaulle.
Una cosa è certa: continuare come se niente fosse non farebbe che condannare all’irrilevanza sia l’RNC che lo stesso Partito Repubblicano. La scelta è semplice: cambiare o morire. Vedremo come andrà a finire.