Un report esplosivo svela la strategia deliberata del Dragone per minare la sicurezza energetica del principale rivale globale, gli Stati Uniti.
Mentre Washington ha guidato storicamente la lotta ai cambiamenti climatici, un nuovo rapporto getta luce sulle reali motivazioni della Cina nell’abbracciare la rivoluzione verde. Il documento, intitolato “Chinese Handcuffs: How China Exploits America’s Climate Agenda”, a cura della Heritage Foundation, rivela come Pechino stia deliberatamente puntando a impossessarsi del mercato globale delle energie “verdi”, sfruttando l’agenda ambientalista americana a proprio vantaggio geopolitico.
Se le cose non cambiano, chiunque vincerà le prossime elezioni Usa si troverà di fronte ad un bivio: continuare nel cammino verso la “decarbonizzazione” con la conseguenza di rinforzare ulteriormente l’antagonista cinese, o rinunciare a materie prime e prodotti del Dragone, riaprendo le concessioni di sfruttamento locali con il risultato di evitare forse la pericolosa dipendenza ma certa di rafforzare critiche e movimenti di protesta da parte degli ambientalisti.
Le manette cinesi
Partiamo dell’analogia usata dall’istituto, le “Manette Cinesi” (chinese handcuffs). Le manette cinesi sono un tradizionale giocattolo per bambini, che consiste in un tubo aperto a entrambe le estremità in cui si inseriscono contemporaneamente due dita e famoso per essere stato incluso nel film La Famiglia Addams. Quando si tenta di tirarle fuori, la trappola si stringe, immobilizzando le dita stesse: l’unico modo per liberarsi è spingere più a fondo le dita nella trappola medesima.
Una perfetta analogia per l’agenda ambientale degli Stati Uniti che risale agli anni ’70 ma si è drammaticamente intensificata durante l’amministrazione Biden. Biden ha infatti abbracciato la collaborazione con la Cina sulle rinnovabili, nonostante Pechino stessa tragga vantaggio dall’agenda verde a scapito di Washington. l settori delle cosiddette “nuove tre” industrie verdi – pannelli solari, batterie agli ioni di litio e veicoli elettrici – hanno un potenziale di mercato stimato in oltre 800 miliardi di dollari solo per gli Stati Uniti nei prossimi anni.
Pechino controlla oltre l’80 per cento della supply chain dei pannelli solari e il 60 per cento del mercato delle batterie per veicoli elettrici. Ma soprattutto, la potenza asiatica è il principale produttore e trasformatore di terre rare, minerali critici impiegati nelle tecnologie militari e per l’energia pulita.
Conseguenza: l’agenda verde implica enormi flussi finanziari che – se non verranno presi provvedimenti drastici – finiranno nelle tasche di Pechino, contribuendo potenzialmente a rendere il Dragone la prima potenza economica mondiale.
Secondo il rapporto, il Partito Comunista Cinese utilizza inoltre le cause ambientali come “esca” per estrarre concessioni politiche dagli Usa, pur non rispettando gli impegni sulle emissioni.
Le contraddizioni della Cina sono evidenti: da un lato promuove il settore verde, ma dall’altro accelera la produzione di combustibili fossili come il carbone. Solo lo scorso anno è stata approvata la costruzione di nuove centrali a carbone per una capacità pari a quella dell’intera rete elettrica britannica.
Prima lo sviluppo
Vero, Pechino è impegnata anche sul versante verde, ad esempio nel 2023 ha generato il 46 per cento in più di energia eolica rispetto a tutta l’Europa combinata. Ma resta il fatto che mentre in Europa e negli Usa perseguiamo a tutti i costi una politica “Climate first”, la Cina prosegue nel paradigma “Development first”.
Come è possibile? Difficile crederlo, ma la Cina è tutt’ora classificata una nazione “in via di sviluppo” (developing country). Questo le permette di prendersi libertà non concesse ad altri, quali raddoppiare “la capacità di produrre energia da carbone attraverso l’introduzione di nuovi impianti in tutto il Paese”.
Semiconduttori
Dopo il Covid il mondo si era reso conto del pericolo della dipendenza da nazioni terze – in questo caso Taiwan – per componenti essenziali come i semiconduttori (i famosi “chip” che fungono da CPU in computer, smartphone e automobili). Ma in questo settore il governo Usa ha reagito rapidamente, sia tramite investimenti diretti che tramite “moral suasion”.
Il risultato è ad esempio che nei prossimi cinque anni Intel muterà pelle, trasformandosi da azienda verticalmente integrata dedita ad una sola architettura (X86, quella dei PC) ad una società aperta alla produzione di componenti per terzi, anche in base a progetti non sviluppati in-house. Il tutto con fabbriche in territorio statunitense.
Fuori da Parigi
Ma niente del genere pare essere in atto riguardo alle questioni energetiche: per questo – afferma lo studio – gli esperti chiedono agli Usa di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, potenzialmente pericoloso per la sicurezza energetica nazionale. Sottolineando che per raggiungere l’indipendenza energetica è ormai necessario rilasciare permessi per lo sfruttamento delle risorse domestiche di petrolio, gas e carbone nazionali.
Solo così Washington potrà svincolarsi dalla presa di Pechino ed evitare di cadere nella “Green Trap” del Dragone.