Sono molti i processi a cui i successi militari di Israele contro i suoi nemici da un lato, e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre dall’altro, hanno impresso una decisa accelerazione. Non tutti prevedibili e previsti. Uno dei più inattesi, se non altro per la rapidità del suo svolgimento, è senz’altro la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria.
Praticamente senza incontrare resistenza ma solo guidando verso sud il fronte dei ribelli guidato dal gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) è arrivato a Damasco. La dissoluzione del sistema di potere di Assad è stata più rapida di quella di Saddam Hussein. Né russi né iraniani sono accorsi in suo aiuto, o perché troppo indeboliti, o perché la partita era già chiusa e hanno pensato di trattare i loro interessi in Siria direttamente con il nuovo dominus del Paese, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che con scaltrezza e una buona dose di azzardo ha saputo approfittare del momento di debolezza dei suoi partner/avversari.
In tempi non sospetti avevamo sottolineato l’ambiguità e le contraddizioni della formula di Astana, che oggi sono venute tutte a galla. Non sembra che il blitz turco sia stato in qualche modo concordato con Washington, né tanto meno con Gerusalemme, il che per certi versi desta preoccupazione, per la passività ancora una volta mostrata dall’amministrazione Biden, costretta a reagire agli eventi anziché guidarli.
I perdenti
Un regime sanguinario e criminale è caduto. Un altro regime sanguinario e criminale, quello iraniano, principale sponsor globale del terrorismo, mandante del 7 Ottobre, è stato pesantemente sconfitto nelle sue ambizioni egemoniche regionali. E anch’esso, forse, è oggi un passo più vicino alla caduta. Un terzo regime, quello di Vladimir Putin, costretto a fare buon viso a cattivo gioco e salvare il salvabile: le basi militari che si affacciano sul Mediterraneo.
Nell’immediato, Israele non può non rallegrarsi della caduta di Assad, vedendovi una pesante sconfitta per il suo nemico storico, l’Iran, a cui sa di aver contribuito in modo decisivo sia con i suoi successi militari in Libano, come riconosciuto da uno dei leader ribelli (“ciò che Israele ha fatto contro Hezbollah in Libano ci ha aiutato molto”), sia con i sistematici raid aerei in Siria per colpire leader, basi e traffici dei Pasdaran.
Quello che il regime iraniano chiama “Asse della Resistenza” è praticamente dissolto. Perso il controllo di Damasco, vede interrotto il corridoio sciita, che via Iraq e Siria, da Baghdad a Beirut, era fondamentale per rifornire di armi Hezbollah. L’accerchiamento di Israele è spezzato.
Un altro perdente di lusso della caduta di Assad, ma in misura molto minore, è la Russia, che grazie al suo intervento a difesa del regime siriano era riuscita dopo anni a tornare ad affacciarsi direttamente sul Mediterraneo. Erdogan e la nuova leadership siriana potrebbero tuttavia avere interesse a venire incontro a Putin, confermando la presenza delle basi russe a Tartus e Latakia, testa di ponte nel Mediterraneo, l’unica cosa che interessa a Mosca.
Rischi significativi
Ma le buone notizie, purtroppo, finiscono qui. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ne è consapevole. Le vittorie israeliane sul campo hanno innescato una “reazione a catena” che sta cambiando il volto del Medio Oriente. Un cambiamento che però, non nasconde Netanyahu, non è privo di “rischi significativi”: “Se possiamo stabilire buone e pacifiche relazioni con le nuove forze che emergeranno in Siria, è ciò che desideriamo. Ma se questo non sarà possibile, siamo pronti a fare tutto ciò che sarà necessario per difendere Israele e il suo confine”.
Gerusalemme ha sempre visto nel sanguinario Assad “un anello fondamentale dell’asse del male dell’Iran”, ma pur sempre un argine, sia nei confronti delle pretese di Teheran di trasformare la Siria in una rampa di lancio per attacchi contro Israele, coinvolgendola in una nuova rovinosa guerra come accaduto al Libano, sia soprattutto nei confronti della minaccia di gruppi jihadisti che avrebbero potuto prendere il potere a Damasco.
Il 7 Ottobre ha cambiato tutto, costringendo Israele a terremotare lo status quo, e l’argine siriano è saltato. Bene, perché il nemico numero uno di oggi è stato ricacciato indietro. Male, perché dalla Siria può sorgere un incubo anche peggiore.
Chi è al-Joulani
A cominciare dal leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), la principale forza ribelle, Abu Mohammed al-Joulani. Non deve ingannare il suo apparente moderatismo. La sua rottura con al-Qaeda e le sue recenti dichiarazioni di apertura al pluralismo e alla tolleranza sono molto probabilmente strumentali, volte a rassicurare le decine di sigle del fronte ribelle e le numerose minoranze religiose ed etniche della Siria.
Ricercato come terrorista dagli Stati Uniti (su di lui una taglia da 10 milioni di dollari). Nel 2003 combattente nelle file di al Qaeda in Iraq. Fondatore del “Fronte Nusra” in Siria per conto di Abu Bakr al-Baghdadi, il primo califfo dello Stato Islamico, dal quale si è dissociato giurando fedeltà ad al Qaeda. Per poi tagliare i suoi legami anche con essa quando lo ha ritenuto opportuno per concentrarsi nella scalata al potere in Siria. Il suo resta il curriculum del perfetto jihadista.
Un video diffuso su X mostra al-Joulani entrare nella moschea degli Omayyadi, un gesto dal forte valore simbolico perché fondata quando Damasco era capitale del Califfato, un impero arabo che andava dall’Atlantico all’India. E perché al suo esterno si trova il Mausoleo di Saladino, che ai tempi dei crociati chiamò il mondo musulmano al jihad sostenendo che la Palestina fosse terra musulmana e Gerusalemme, che riuscì a conquistare, un luogo sacro dell’Islam.
La partita di Erdogan
Il padrino di questo regime change però si trova ad Ankara e si chiama Recep Tayyip Erdogan, ora tramite i suoi alleati jihadisti vero e proprio dominus a Damasco. Ora Erdogan si trova nella posizione di dare le carte per il futuro della Siria. Vorrà certamente controllare il nord del Paese, pur senza annetterlo, e regolare i conti con le milizie curde, le Forze Democratiche Siriane, legate al PKK (difficile che Washington, anche con Trump, acconsenta). Azzerata l’influenza sciita, è molto probabile invece che permetta alla Russia di tenersi le sue basi militari.
Ma ciò che più spaventa va ben oltre la Siria. Con la presa di Damasco il Sultano mette a segno un colpo importante per il suo disegno neo-ottomano (stiamo pur sempre parlando, da Damasco a Gerusalemme, fino a Tripoli passando per il Cairo, di territori che facevano parte dell’Impero Ottomano), volto a ristabilire il ruolo guida della Sublime Porta sul mondo sunnita.
Nel medio termine, purtroppo, è più che fondato il timore che la Turchia intenda utilizzare la Siria esattamente come l’ha utilizzata l’Iran, ovvero come pedina politica e militare per le sue ambizioni egemoniche sul Medio Oriente. All’influenza iraniana è destinata a sostituirsi quella turca, alla dittatura laica degli alawiti, l’integralismo dell’Islam politico, con effetti ben più destabilizzanti sui regimi arabi moderati come Egitto e Giordania.
L’influenza dell’Islam politico
Al Sisi al Cairo e la monarchia hashemita ad Amman non possono che vedere con inquietudine l’influenza politica che può esercitare sui loro popoli un grande Paese a maggioranza sunnita governato dai Fratelli Musulmani (di cui fa parte Hamas, non dimentichiamolo) e sostenuto da Ankara. Da lì può partire ben più di una scintilla in grado di attizzare una seconda “primavera araba”, dopo la prima che ha portato la Fratellanza Musulmana al potere persino in Egitto, sia pure per un breve periodo.
Stesse preoccupazioni a Riyad. Una Siria sotto l’influenza di Erdogan porta ad un livello di guardia la rivalità tra Turchia e Arabia Saudita per il ruolo di potenza leader del mondo sunnita.
E la spregiudicata “Opa” di Erdogan sulla regione potrebbe non essere meno ostile verso Israele di quella iraniana, essendo l’odio per Israele e gli ebrei il collante del mondo musulmano e una delle più potenti leve per affermare la leadership al suo interno. Mentre regimi come Egitto e Arabia Saudita, sebbene non democratici, hanno da anni accettato e praticato la coesistenza con Israele, dalle mosse di Erdogan negli ultimi anni non si può dire altrettanto della Turchia.