Esteri

Le manifestazioni pro-Bolsonaro e i primi segnali di chavismo da Lula

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Rio de Janeiro – Da osservatore diretto, non per sentito dire, delle vicende brasiliane da molti anni e in specie di queste ultime settimane, confesso un certo grado di nausea per ciò che sta accadendo in questo grande Paese dalla democrazia incompiuta e, per questo, ahimè, imperfetta.

Nausea per il veder ripetersi di questi tempi film già ripetutamente proiettati in passato. Ma soprattutto per dover assistere alla distruzione masochistica di tutto quello che di buono si stava cercando di costruire negli ultimi anni, in questo Paese storicamente dominato dalla corruzione, dalle deboli tutele democratiche, dall’inaffidabilità costituzionale di alcuni poteri, dall’assenza di principi di trasparenza e di dignità da parte dei media, e dalla rapidissima perdita della memoria storica in quasi tutta la giovanissima popolazione brasiliana.

La manifestazioni

Le manifestazioni, assolutamente pacifiche, di questi giorni, nate subito dopo l’annuncio della vittoria di Lula e del Partido dos Trabalhadores (PT), non sono eterodirette da nessuno, men che meno – come naturalmente insinua la sinistra – da Bolsonaro o da poteri militari pronti al golpe.

Ciò che muove centinaia di migliaia di brasiliani ad andare per le strade è il bisogno di manifestare la propria delusione e la propria protesta per il modo in cui si è arrivati al risultato delle urne, lungo un percorso tortuoso e opaco, iniziato almeno un paio d’anni fa, che ha premiato Lula e punito Bolsonaro.

È la manifestazione della sgradevole sensazione di essere stati truffati, non tanto nelle urne – anche se proprio in questo periodo vengono controllate per il sospetto che, finanche nei procedimenti di voto e di conteggio, siano stati compiuti brogli – ma nelle azioni portate avanti dai ministri del Supremo Tribunal Federal (STF), che ha annullato i processi della Lava Jato e, all’interno di essi, quelli che hanno condannato, nei tre gradi di giudizio, l’ex presidente Lula a 12 anni di prigione per una serie di gravissimi reati durante l’esercizio dei mandati presidenziali.

Il contegno di Bolsonaro

Le dichiarazioni di Bolsonaro, a circa 36 ore dal voto, sono state tranquillizzanti e istituzionalmente e democraticamente ineccepibili, ma non hanno esplicitamente riconosciuto la vittoria di Lula, che è stata peró riconosciuta dal figlio di Bolsonaro, senatore, e dal vice, gen. Mourao.

Il contegno di Bolsonaro, quindi, all’interno delle “quattro linee della Costituzione brasiliana”, è quello di un presidente che sente di aver subito una sconfitta dopo una lotta impari durata molto tempo, nella quale egli, con il “suo” movimento (che non nasce oggi, ma nel 2013 quando scendeva nelle strade per chiedere “Basta alla corruzione” e basta con la presidenza Dilma, e il suo impeachment) sono stati fatti oggetto di una feroce campagna di aggressione mediatica e giudiziaria.

La campagna elettorale

Una campagna che è culminata, nella sua prima fase, con l’annullamento – per un errore di Cap, cavilli giuridici, del Tribunale che avrebbe dovuto processarlo, secondo giudici costituzionali quasi tutti di nomina dei governi Lula e Dilma – del processo che ha condannato Lula e con la decisione di rendere legittima la sua ricandidatura.

E nella fase decisiva della campagna elettorale, con lo schieramento pancia a terra pro-Lula del potere giudiziario che, attraverso un insolito e abnorme ampliamento delle prerogative del Tribunale Superiore Elettorale (TSE) ha operato, in specie nelle ultime due settimane precedenti il voto, una vera e propria censura, preventiva e non solo.

Una censura che ha colpito esclusivamente la libertà di opinione e di espressione del candidato Bolsonaro, dell’unica tv (Jovem Pan) e dell’unico giornale di carta stampata (Gazeta) non allineati col plotone di esecuzione pronto a far fuori il presidente, e che ha goduto della copertura incondizionata del STF, la Corte costituzionale di Brasilia, grande regista dell’operazione di recupero e rielezione di Lula.

Con questo schieramento di forze risulta chiara la ragione del malcontento. E risulta perfino miracoloso che Bolsonaro sia giunto a sfiorare la vittoria.

Vita non facile per Lula

Ma il nuovo Congresso potrebbe essere in grado di rendere la vita abbastanza difficile al presidente Lula. Il Brasile di oggi non è più quello del 2003, quando per avere una propria base governativa in Parlamento Lula e il PT compravano i voti dei parlamentari pagando loro un profumatissimo stipendio mensile.

Il gioco venne alla luce e ne nacque un processo, detto del Mensalão, che mandò in galera quasi interamente la cupola politica del PT. Ma non Lula, allora presidente, che naturalmente era tenuto all’oscuro di tutto (cosa non molto credibile in un partito leninista come il PT).

Fra quei capi che andarono a passare alcuni anni nelle prigioni brasiliane, la personalità che spicca è quella di Jose Dirceu, oggi lasciato nell’ombra per evidenti motivi ma ancora testa pensante e decidente del PT, tenutario e garante del rispetto della linea ideologica del partito, amico di Cuba e di tutti i leader comunisti in giro per il mondo e gran tessitore del Foro di San Paolo.

Dalle parole sue, di Jose Genoino, ex presidente del PT e anch’egli in prigione per il Mensalao, e dell’ex ministro degli esteri del governo Lula, Celso Amorim, sono venute negli ultimi tempi dichiarazioni assai preoccupanti sui futuri programmi del PT.

Lula e il PT temono che Bolsonaro e il nuovo movimento conservatore nato dalle elezioni del 30 ottobre possano rappresentare un grave pericolo per la riuscita del progetto del PT, che non è un progetto di governo, ma di potere. Quindi non vogliono consentire che possano crescere nel Paese, fino a risultare fattori determinanti di un rivolgimento popolare contro un governo dal quale 90 milioni di brasiliani, su 150 milioni di elettori, non si sentono rappresentati.

I primi segni di chavismo

Ed allora, ecco i primi preoccupanti “spifferi di chavismo” trapelati nelle dichiarazioni e nelle interviste. Secondo Amorim, Lula e il PT avrebbero già in cantiere un progetto per la “spoliticizzazione” delle forze armate. Tradotto: licenziare i vertici (i generali) ritenuti poco affidabili e sostituirli con altri generali più “democratici” e malleabili.

Inoltre, sarebbe già pronto un altro progetto, per disarmare le polizie, messaggio questo di impressionante stupidità e imprudenza in un Paese che presenta indici di criminalità comune e organizzata fra i più alti al mondo, che solo negli anni del governo Bolsonaro hanno registrato una flessione.

Ma la voce più inquietante è quella riguardante la volontà di dar vita a una Guarda Nacional militare in tutto simile a quella voluta a suo tempo da Chavez e che rappresentò plasticamente, per il Venezuela degli anni ’90, il passaggio dalla democrazia, sia pure imperfetta, ad una dittatura socialista bolivariana, cioè ad un regime comunista tout court.

Una Guarda Nacional brasiliana rappresenterebbe il segnale forte e chiaro di come il PT – partito comunista con struttura e ideologia leninista, ricordiamolo – vuol trasformare la democrazia brasiliana in un regime di cui, di democratico e di popolare, resterà probabilmente solo il nome, come la democraticissima DDR, Repubblica Democratica Tedesca, o la popolarissima Repubblica cinese, entrambe dominate da un partito comunista, che in Brasile si chiama Partido dos Trabalhadores.

Economia in salute

Con questo sentiment quasi da guerra civile, e il Paese spaccato quasi a metà, si assiste al lento passaggio di consegne dal vecchio al nuovo governo. Come ho già detto in precedenza, il Brasile che Bolsonaro lascia a Lula è un Paese in condizioni smaglianti, con i dati economici tutti in positivo e con tendenza a crescere.

Fanno ridere le menzogne diffuse dagli uffici stampa del PT e ripresi pari pari dal corrispondente unico dal Sudamerica, comunista militante esattamente come i fornitori delle menzogne. Fanno ridere e fanno rabbia, ma è una realtà, quella dell’America Latina, che ci viene narrata a senso unico da sempre, e che quindi non ci stupisce affatto.

In un ambiente di crescita, malgrado pandemia e guerra dell’energia, nel Brasile di Bolsonaro nascono nuove straordinarie realtà imprenditoriali e quelle che già esistevano (come la Petrobras, azzerata fin quasi al fallimento dai governi Lula e Dilma) moltiplicano gli utili. Avete notizie del genere in un Paese europeo o negli stessi Usa?

Solo tre esempi. (1) La Petrobras fa 145 miliardi di Real di utili nel 2022 crescendo del 93 per cento rispetto al 2021. (2) La Multiplan, gigante nell’amministrazione degli shopping centers, fa vendite record di 4,7 miliardi di Real e aumenta dell’87,2 per cento nel terzo trimestre del 2022 fino a 186 miliardi.

Infine, (3) una nuova impresa, nata nel 2008 nel settore della bioenergia, la Brasil Bio Fuels (BBF), operante nella regione Norte del Brasile (in pratica una piccola parte della regione amazzonica, nello Stato di Roraima). La BBF è la maggiore produttrice di olio di palma (attenzione, gretini: olio di palma per la produzione di BioDiesel) dell’America Latina, con 38 centrali termoelettriche e capacità di produrre quasi 240 MW, 200.000 tonnellate di olio l’anno, che ha generato direttamente 6.000 posti di lavoro oltre a 18.000 posti nell’indotto.

Una grande realtà di produzione di biocombustibili sostenibili per preservare il territorio e garantire la crescita dell’economia locale e della qualità della vita della regione. Non è forse un caso che proprio nello Stato di Roraima, anche se non solo in Roraima, il voto abbia premiato Bolsonaro (e il suo governo) con percentuali di oltre il 70 per cento.

La demagogia della sinistra, basata sempre e solo sulle menzogne, quando è messa davanti ai fatti, si scioglie come neve al sole.

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