“Se lo dice Jeffrey Sachs, allora…” allora il discorso, di solito finisce, vista l’importanza e l’esperienza della persona che viene citata. Jeffrey Sachs, economista di grido, di scuola keynesiana, viene sempre più spesso citato dalla destra sovranista. Perché da almeno un anno sta facendo proseliti in difesa delle ragioni di Vladimir Putin. Ovviamente non lo fa in modo sfacciato, non è un personaggio da talk show italiano. Ma attribuendo agli Usa e alla Nato la colpa dell’origine del conflitto con la Russia. Di conseguenza, leggendolo, si è portati a credere che Putin abbia invaso l’Ucraina per “reazione” e non per aggredire.
Sachs è tornato agli onori della cronaca con un lungo articolo sulla Russia, diffuso dalla newsletter del popolare giornalista d’inchiesta Matt Taibbi (quello dei Twitter Files) dove spiega le origini del nuovo confronto fra Usa e Russia. Ma la sua argomentazione può essere divisa grossomodo in due parti. La prima è storica e basata sull’esperienza personale, la seconda è fatta di congetture e contiene molte forzature, omissioni e palesi falsi storici. Indovinate per cosa Sachs sta facendo notizia?
Il fallimento della transizione russa
Nella prima parte del suo articolo Sachs ricorda il suo ruolo di consulente dei primi governi russi post-sovietici e spiega perché la transizione dal comunismo al capitalismo sia sostanzialmente fallita, dopo che la sua consulenza al primo governo polacco aveva invece avuto successo. È importante ricordarlo, perché solitamente si attribuisce tale fallimento alla “terapia shock”, cioè alla strategia suggerita da Sachs per passare il più rapidamente possibile da un’economia pianificata ad una di mercato.
Ma questa tesi è smentita dalla storia dei Paesi post-comunisti: la Polonia, la Repubblica Ceca e i Paesi Baltici hanno tutti (e la Polonia grazie proprio a Sachs) applicato la strategia della shock therapy ed oggi sono tutti Paesi benestanti e con economie più dinamiche della media europea.
Perché in Russia la transizione è fallita? Secondo Sachs, perché, al momento buono, nel periodo cruciale della dissoluzione dell’Urss e dei primi governi liberali in Russia, è venuto a mancare un indispensabile aiuto americano.
Nel periodo 1991-94 ho chiesto senza sosta, ma senza successo, un sostegno occidentale su larga scala per l’economia russa in crisi e per gli altri 14 Stati indipendenti dell’ex Unione Sovietica. Ho lanciato questi appelli in innumerevoli discorsi, riunioni, conferenze, articoli di giornale e articoli accademici. La mia era una voce solitaria negli Stati Uniti nel chiedere tale sostegno.
L’amministrazione Bush, nel 1992, era alle prese con una crisi economica in America e in un anno elettorale non poteva fare promesse di aiuti all’estero. L’amministrazione Clinton, però, non seguì i consigli di Sachs, probabilmente perché non era sufficientemente consapevole dei problemi nell’ex Urss.
Nel primo anno dell’amministrazione Clinton, la mia continua attività di advocacy a Washington cadde ancora una volta nel vuoto e i miei stessi presentimenti divennero sempre più forti. Ho ripetutamente invocato gli avvertimenti della storia nei miei discorsi pubblici e nei miei scritti, come in questo articolo apparso sul New Republic nel gennaio 1994, poco dopo essermi dimesso dal ruolo di consulente.
In quell’articolo ricordava vari precedenti storici:
La storia ha probabilmente dato all’amministrazione Clinton un’unica possibilità di salvare la Russia dal baratro; e rivela uno schema maledettamente semplice. I girondini moderati non furono i successori di Robespierre al potere. Con l’inflazione dilagante, il disordine sociale e il calo del tenore di vita, la Francia rivoluzionaria optò invece per Napoleone. Nella Russia rivoluzionaria, Aleksandr Kerensky non tornò al potere dopo che le politiche di Lenin e la guerra civile avevano portato all’iperinflazione. Il disordine dei primi anni Venti aprì la strada all’ascesa al potere di Stalin. Anche in Germania il governo di Bruning non ebbe un’altra possibilità dopo l’ascesa al potere di Hitler nel 1933.
Questa tesi di Sachs è discussa e discutibile. Dimentica, ad esempio, che l’apparato militare e di sicurezza russo rimase sempre quello sovietico e si comportò con metodi sovietici, quando poté, sin da subito, nei conflitti in Moldavia, Georgia, Armenia e Tagikistan, poi in modo ancor più devastante in Cecenia. L’apparato di sicurezza e l’esercito hanno una grave responsabilità nella mancata transizione della Russia dalla dittatura comunista alla democrazia liberale.
Poi non è vero che gli Usa non aiutarono le repubbliche post-comuniste: nel G-7 del 1993 venne annunciato un pacchetto di 3 miliardi di dollari in aiuti finanziari alla Russia e alle altre repubbliche ex sovietiche, con 1,8 miliardi di aiuti dai soli Stati Uniti. Però, almeno, Sachs ci permette di comprendere quali siano le radici del rancore russo nei confronti dell’Occidente e la fine prematura dell’esperienza liberale russa.
Il mito della promessa disattesa
Fin qui la testimonianza di Sachs ha un valore, anche perché è di prima mano. Quel che segue (e che fa notizia) è invece fatto di congetture, perché riguarda un periodo in cui lo stesso Sachs non aveva più alcun ruolo in Russia. E non fa che rilanciare argomenti tipici della propaganda di regime russa dell’era Putin.
Per esempio, Sachs ripete il falso storico della “mancata promessa della Nato” di non espandersi ad Est, che sarebbe stata fatta a Gorbaciov dall’amministrazione Bush (padre). Che si tratti di un falso storico è stato confermato dalla stesso Gorbaciov, in un’intervista. E non potrebbe essere neppure vero: nel 1990-91, quando Gorbaciov era ancora presidente dell’Urss, i Paesi Baltici erano ancora parte dell’Unione Sovietica e, fino al luglio 1991, il Patto di Varsavia c’era ancora. La Nato non avrebbe neppure potuto promettere di “non espandersi” in territorio sovietico, o occupato da basi sovietiche.
Eppure Sachs sostiene, con grande sicumera, come l’espansione a Est della Nato, sia all’origine della conflittualità con la Russia dalla seconda metà degli anni 90 in poi, perché la considera una “promessa disattesa”.
Le bombe su Belgrado
Così come considera un fattore di crisi il fatto che la Nato abbia “bombardato Belgrado per 78 giorni” nel 1999. Sì, ma non dice il perché. Sachs, forse calandosi troppo nel punto di vista russo, dimentica che i bombardamenti ci furono perché l’ultimo dittatore jugoslavo, Slobodan Milosevic, stava iniziando una pulizia etnica in Kosovo (prima che spuntino i commenti dei negazionisti: qui ci sono le prove).
Discutibile, come sempre, che la Nato sia intervenuta con la forza per fermarlo, ma è molto peggio il ruolo della Russia che ha acriticamente difeso Milosevic. Pur facendo parte, fra l’altro, dello stesso schema di sicurezza comune europea dopo la firma del Nato-Russia Founding Act nel 1997.
Il ruolo dei neocon
Peggio ancora: Sachs si unisce al vastissimo coro di chi accusa i “neocon” (classico babau, ormai) di non aver voluto la pace con la Russia e di averla provocata. Ma i neocon, cioè alcuni ministri chiave e il vicepresidente dell’amministrazione Bush (figlio), hanno accettato ampiamente la collaborazione della Russia nella guerra al terrorismo.
Perché dopo l’11 settembre avevano un unico nemico: Al Qaeda e i suoi sponsor islamici. Quindi hanno lasciato fare Putin in Cecenia, hanno lasciato che commettesse crimini orrendi, pur di avere un passaggio per l’Afghanistan usando spazio aereo russo e basi in nazioni ex sovietiche alleate di Mosca. Sachs dimentica l’invasione russa della Georgia del 2008, a cui Bush non reagì.
E, peggio ancora, ripete la teoria del complotto russa, secondo cui la rivoluzione del 2014 in Ucraina è frutto di un’operazione coperta americana condotta dall’amministrazione Obama.
Come tanti altri ex consiglieri di un governo straniero, Sachs ne sposa la visione, anche quando diventa indifendibile. E però è questo che fa notizia. Purtroppo, in un momento in cui l’America è stanca di una guerra ucraina combattuta da altri e cerca una soluzione diplomatica purché vi ponga fine prima delle elezioni in Usa, viene bene ripetere: “Anche Putin ha le sue ragioni, lo dice persino Jeffrey Sachs”.